MARCO SANTAGATA. Dal Big Bang alla vita: siamo tutti nipotini di Luca

Marco Santagata se n’è andato il 9 novembre 2020. Era già in cura ma a decidere la sua sorte è stato il Covid 19. Abbiamo perso un grande italianista specializzato nella letteratura del Trecento, il più stimato dei petrarchisti e dei dantisti, autore di romanzi (anche gialli) e di saggi.

Marco Santagata se n’è andato il 9 novembre 2020. Era già in cura ma a decidere la sua sorte è stato il Covid 19. Abbiamo perso un grande italianista specializzato nella letteratura del Trecento, il più stimato dei petrarchisti e dei dantisti, autore di romanzi (anche gialli) e di saggi.

Di un libro di Santagata, molto lontano dai suoi interessi principali ma non dalla sua meravigliosa curiosità, parlo qui sotto perché ho avuto il privilegio di assistere alla sua genesi. Marco mi inviava i capitoli via via che li scriveva insieme con Vincenzo Manca, amico e informatico autorevole. Chiedeva una revisione degli aspetti astrofisici. L’umiltà dei grandi.

Era nato nel 1947 a Zocca, sull’Appennino emiliano, lo stesso paese dell’astronauta Maurizio Cheli e di Vasco Rossi. Ci vedevamo ogni anno a Stresa, era, per così dire, mio vicino di banco nella giuria di quel premio di narrativa nato in riva al Lago Maggiore per iniziativa di Piero Chiara, Mario Soldati, Gianfranco Lazzaro e Mario Bonfantini. Aveva vinto un Premio Campiello, stanno per arrivare in libreria due suoi saggi dedicati a Dante nel settimo centenario della morte. Lo ricorderò tra le persone più amabili, colte, intelligenti e creative che abbia conosciuto.

I casi sono due. O nell’universo esistono altre forme di vita o siamo soli. Entrambe le prospettive sono paurose. Una eventualità da considerare – forse la più probabile – è che ci siano molte civiltà aliene ma così distanti tra loro che è come se fossimo tutti soli. Una affollata solitudine cosmica. Anche questa prospettiva è agghiacciante. Per scegliere tra le due (o tre) paure e dare un significato nuovo e più
profondo alla nostra esistenza bisognerebbe rispondere a una domanda: come ha avuto origine la vita?

Una ricetta precisa che trasformi la materia inanimata in qualcosa di vivente non l’abbiamo ancora. C’è però un’idea di come potrebbero essersi svolti i fatti: una catena di eventi fisici e chimici abbastanza convincente, pur con i suoi anelli deboli. Vincenzo Manca, professore di informatica all’Università di Verona, e Marco Santagata, italianista illustre, hanno messo insieme gli anelli, robusti o laschi che siano, in un libro sospeso tra noto e ignoto: “Un meraviglioso accidente. La nascita della vita” (Mondadori, 135 pagine, 19 euro). Sobri disegni di Guido Scarabattolo accompagnano il racconto.

Racconto è la parola giusta. Perché “Un meraviglioso accidente”, a modo suo, è un racconto. I personaggi non sono gli scienziati che hanno immaginato il Big Bang o scoperto la meccanica quantistica, la relatività, il codice genetico. I personaggi sono atomi, elettroni che li allacciano formando molecole, molecole che diventano sempre più complesse, strutture chimiche che a un certo punto, in milioni di anni e miliardi di tentativi, diventano più importanti per la loro forma che per la sostanza di cui sono fatte, e infine la forma, cioè l’in-forma-zione, in qualche modo ancora da capire, prende il comando sulla materia, ed è la vita.

I protagonisti celebri – Mendeleev e la tavola periodica, Planck e i quanti di energia, Einstein e la relatività, Watson e la doppia elica, Mullis e l’amplificazione del DNA, Shannon e la teoria dell’informazione – qui arrivano solo in una stringata nota finale, prima sono fantasmi tra le righe, comparse anonime ed elusive. Nel racconto c’è un solo nome, Luca, ma è la sigla di Last Universal Common Ancestor, il più lontano antenato comune di tutti i viventi, la cellula primordiale. Come si arriva a Luca? Bene, questa è la storia.

C’era una molecola speciale, due atomi di idrogeno e uno di ossigeno: l’acqua, magnifico e munifico solvente. C’era il carbonio, elemento con quattro mani pronto a stringere amicizie con suoi simili o con altri atomi: legami stabili, ma non troppo, perché la vita vuole flessibilità, adattamento, ossimori come tenace fragilità e fragilità tenace. C’erano un po’ di azoto, fosforo e calcio, che con idrogeno e ossigeno costituiscono il 99 per cento di ogni essere vivente. Più un profumo di altri elementi, tutti sintetizzati nelle stelle tranne l’idrogeno, l’elio e un pizzico di litio, l’elemento, scopriranno i neuroscienziati, che mantiene il nostro buonumore.

Colpi di scena della storia sono le prime molecole lunghe, i polimeri, poi i biopolimeri, l’RNA (acido ribonucleico), le prime membrane, che a loro volta imprigionano pezzetti di RNA, e abbiamo le protocellule, poi il DNA (una versione di lusso dell’RNA: non un solo filamento ma due accoppiati – la famosa doppia elica) con cui avviene il passaggio dalle cellule procariote (con materiale genetico sparso nella cellula) alle cellule eucariote (con materiale genetico concentrato nel nucleo), infine gli organismi pluricellulari. Come noi, che siamo fatti di centomila miliardi di cellule.

Insomma, un libro strano e bello, scritto da una strana coppia. E qui incomincia il metalibro, il libro che parla di sé stesso. Lo incontriamo nelle pagine finali, a firme disgiunte. Perché mai un italianista eminente, curatore delle opere di Dante e Petrarca, dovrebbe cimentarsi in un testo di biologia? Perché dovrebbe farlo un informatico? Che ci fanno insieme questi due? Fanno le vacanze all’isola di San Pietro, arcipelago del Sulcis, vicino alla costa della Sardegna, un appuntamento estivo che dura da anni. I due e le loro mogli, Cristina e Elena, chiacchierano davanti al mare di tante cose, e Vincenzo, l’informatico, accenna all’enigma della vita, forse uscita da una pozzanghera tiepida 4 miliardi di anni fa. Santagata lo incoraggia a scriverne. Alla lunga, Manca cede e dopo due anni gli presenta un dattiloscritto di cento pagine. Perfetto per i colleghi scienziati, non per i lettori. Toppe digressioni. La regola, spiega il letterato, è: “se parli di una pistola e questa non spara mai nel racconto, elimina la pistola”. E poi troppo tecnico, troppo freddo per avvincere chi di biochimica non sa nulla. Ma la soluzione non è infarcire le pagine di aneddoti e sentimenti…

La situazione era questa quando irrompe un trauma sconvolgente: Elena, moglie di Vincenzo Manca, muore, una malattia se la porta via mentre i due discutono su come sia nata la vita. Le vacanze all’isola di San Pietro non sono più come prima. Allora parte un esperimento: il letterato e l’informatico si scambiano competenze e nozioni, il letterato scrive, l’informatico legge e corregge, il letterato riscrive. Ed ecco il libro. “Un meraviglioso accidente”, frutto di un atroce incidente.

Così la biochimica è diventata quasi romanzo, un romanzo che ha il rigore extratemporale dei classici perché non concede nulla agli effetti speciali. C’è un precedente: il racconto “Carbonio” con cui Primo Levi sigilla “Il sistema periodico”. Levi concepì quell’episodio prima ancora della deportazione a Auschwitz e lo pubblicò nel 1975. Dieci pagine, più di trent’anni. “Carbonio” è un racconto epico che termina con una riga autobiografica, una sola. Si può dire qualcosa di simile anche per “Un meraviglioso accidente”. E’ un racconto epico perché i suoi protagonisti – atomi, molecole, caso, necessità – sono archetipi come Ulisse, Achille, Ettore, Cassandra. Ed è autobiografico, perché sotto traccia è la storia di due amici e un grande dolore.

Piero Bianucci
Da “La Stampa” online, 2 aprile 2018

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