Il 30 luglio nella notte è mancato un caro vicino di casa, anzi, di pianerottolo: l’avvocato Aldo Piacenza. Non era un vicino qualsiasi. Lo ricordo qui con questi documenti.
LA CATTURA DEL PARTIGIANO PRIMO LEVI / Piero Bianucci
–articolo pubblicato il 14 ottobre 2001 sul settimanale “il nostro tempo”
Devo alla cortesia dell’avvocato Aldo Piacenza, amabile vicino di pianerottolo, un documento e una testimonianza che possono servire a scrivere una piccola nota in margine alla prima pagina di <Se questo è un uomo>.
L’incipit di questo grande libro per certi versi è sorprendente. Primo Levi dedica poche righe alla sua vita di partigiano e all’episodio che darà inizio alla discesa nell’inferno di Auschwitz; frasi sommesse, così preoccupate di evitare ogni enfasi retorica da sembrare reticenti: <Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a “Giustizia e Libertà”. Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe.>.
Con queste premesse, la cattura da parte dei fascisti appare a Primo Levi perfettamente logica e quasi meritata: <A quel tempo, non mi era ancora stata insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta.>.
Sul cruciale evento della cattura, Primo Levi non aggiunge altro. Non specifica il luogo, le circostanze, i sentimenti provati. Le pagine seguenti toccano, ancora in modo stranamente sbrigativo, l’interrogatorio, l’ammissione di essere “cittadino italiano di razza ebraica”, il trasferimento al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena, e di qui, all’alba del 22 febbraio, la partenza in treno verso una meta ignota ai deportati ma il cui tragico significato era ben chiaro a tutti.
Come si erano svolti i fatti della cattura, avvenuta in Valle d’Aosta, tra le montagne sopra Saint Vincent? Il documento fornito dall’avvocato Piacenza ne dà la versione ufficiale fascista. In data 11 gennaio 1944 il <Capo della Provincia di Aosta> (così dice l’intestazione del foglio), che si firma con il solo cognome, Carnazzi, detta un “Pro memoria per l’Eccellenza Dolfin – Segretario particolare del Duce”. All’operazione si dà ampio rilievo, con ben avvertibili esagerazioni e spreco di maiuscole.
<Secondo gli ordini da me impartiti – scrive il Carnazzi – la notte del 13 dicembre Legionari dell’XI Battaglione Milizia Armata – reduce dalla Grecia – , Legionari della XII Legione “Monte Bianco” e Militi della Centuria Confinaria rispettivamente al Comando del Seniore Da Filippi, Comandante la Legione e del Centurione Ferro, Comandante la Centuria Confinaria di Aosta eseguirono e portarono a termine una azione contro gruppi di ribelli dislocati nella Valle di Brussone. Gli uomini (complessivamente 297) furono divisi in due colonne. La prima colonna si diresse verso Arcesa; la seconda verso la zona di Amay. Alle ore 8,40 del giorno 13 la prima colonna iniziò l’opera. La frazione Arcesa fu completamente rastrellata ed un’abitazione da cui furono lanciate bombe contro i militi fu presa d’assalto. Il ribelle Carreri Giuseppe fu ucciso e due furino feriti. Un legionario rimase ferito leggermente. Furono catturati quattro prigionieri fra cui un australiano e cinque individui perché presunti favoreggiatori. Bottino: un autocarro – un camioncino – due Fiat 500, viveri, munizioni e indumenti.>.
<La colonna diretta ad Amay attaccò e distrusse il gruppo dei ribelli colà accantonati. Il campo fu incendiato. Nell’azione i ribelli uccisi furono sei; feriti diversi, due di questi precipitarono in un profondo burrone e si ritiene probabile la loro morte. I prigionieri catturati furono 5, tra i quali 3 ebrei. Bottino: 7 moschetti, 2 pistole, munizioni per moschetto e 8 bombe a mano, viveri, oggetti di valore e danaro. Furono fermate cinque persone sospette di favoreggiamento. La banda è stata dispersa. Nelle nostre mani è rimasto il filo conduttore dell’organizzazione sovversiva del Piemonte.>.
E ora la testimonianza dell’avvocato Piacenza. I cinque catturati in zona di Amay (una frazione di Saint Vincent, ma in quota, presso il Colle di Joux che porta a Brusson) sono: Primo Levi; Vanda Maestro, ebrea, morta in campo di concentramento a Buchenvald; Luciana Ninim, rinchiusa nello stesso campo ma sopravvissuta perché medico, ebrea, morta qualche anno fa a Milano; Guido Bachi, ebreo ma non riconosciuto per tale e perciò rimasto in carcere nella Torre dei Balivi di Aosta, trasferitosi nel dopoguerra a Parigi; e lo stesso Aldo Piacenza, il nostro testimone, non ebreo nonostante il cognome che potrebbe farlo supporre.
Pochi giorni prima dell’operazione militare il gruppo di partigiani era stato raggiunto da due giovanotti che manifestarono l’intenzione di unirsi al drappello partigiano. <A modo loro – racconta Piacenza – questi fascisti furono coraggiosi. Peraltro noi non avevamo molte possibilità di appurare se si trattasse di infiltrati. Le formazioni partigiane nascevano, per forza di cose, all’insegna dello spontaneismo e dell’improvvisazione. Presi gli accordi, i due se ne andarono con la promessa di rientrare qualche tempo dopo per combattere al nostro fianco. Capimmo chi erano quando arrivò la Milizia, una sessantina di armati. I due infiltrati mi conoscevano come “ufficiale” (sottotenente reduce dalla ritirata di Russia) “facente parte di banda armata contro la sicurezza dello Stato” e come tale fui deferito al Tribunale Speciale e carcerato in attesa nella Torre dei Balivi. Qui, mesi dopo, un compagno più esperto mi indusse ad avvalermi fittiziamente della possibilità, per i carcerati, di essere tradotti nei reparti che combattevano gli Alleati sull’Appennino. Durante la traduzione riuscii a recuperare la clandestinità, partecipando alla liberazione di Cuneo. Credo che di Vanda, anche se non viene nominata, rimanga traccia nel primo capitolo di “Se questo è un uomo”, alla fine delle pagine che raccontano il viaggio verso il lager.>.
Ecco quelle righe: <Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.>.
Mirabile eloquenza dell’ellissi, potenza dell’implicito. Varrebbe la pena di rileggere <Se questo è un uomo> ponendo attenzione non solo alle cose che racconta ma anche a quelle che tace.
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L’episodio che diede luogo a questo articolo nacque da un casuale scambio di battute avvenuto sul pianerottolo di casa nel quale l’avv. Aldo Piacenza, en passant, a una mia citazione di Primo Levi mi disse scherzosamente qualcosa come: “Ma sa che in qualche modo io sono stato responsabile della sua cattura?”
Davanti alla mia sorpresa mi disse allora di essere stato a capo della banda partigiana di cui faceva parte anche Primo Levi.
Ovviamente la cosa mi interessò moltissimo e gli chiesi qualche particolare in più. Nel giro di un paio di giorni l’avv. Piacenza mi fornì il materiale che poi usai per scrivere l’articolo pubblicato su “il nostro tempo”. Questi i fatti e i dati precisi:
4 settembre 2001:
l’avv. Aldo Piacenza mi consegna fotocopia del “Pro-memoria per l’Eccellenza Dolfin – Segretario particolare del Duce” firmato “Carnazzi” con il seguente appunto esplicativo scritto di suo pugno su un post-it:
“I 5 catturati in in zona Amay (frazione di St. Vincent, ma in quota, presso il Colle di Joux adducente a Brusson) sono:
- Primo Levi
- Vanda Maestro, morta in campo di concentramento (credo Buchenvald), ebrea
- Luciana Nissim, rinchiusa nello stesso campo ma sopravvissuta perché medico (La Stampa ne annunciò la morte a Milano 1 o 2 anni fa, ebrea
- Guido Bachi (ebreo ma non riconosciuto per tale epperciò rimasto in carcere nella Torre dei Balivi di Aosta nel dopoguerra vivente a Parigi
- Io (non ebreo) deferito al Tribunale Speciale Sicurezza Stato”
Prima di pubblicare l’articolo riguardante la cattura di Primo Levi (14 ottobre 2001) su “il nostro tempo” sottoposi il testo all’avv. Piacenza che modificò una frase.
L’originale, che rifletteva sue dichiarazioni verbali molto informali, diceva: “Nell’interrogatorio che seguì (alla cattura, ndr) per orgoglio giovanile non volli negare le mie intenzioni di partecipare alla lotta partigiana. Fui poi indotto a farlo strumentalmente da un compagno più esperto, e così riuscii a farmi rilasciare sotto la promessa di unirmi alle truppe che combattevano gli Alleati sull’Appennino. Ovviamente non mi videro mai arrivare…”
La nuova frase, effettivamente da me pubblicata con lievi varianti, scritta di suo pugno in fondo alla copia dell’articolo che gli avevo data in lettura, diceva:
“Come cognito ai 2 infiltrati, ero “ufficiale” (sottotenente, reduce dalla ritirata di Russia) “facente parte di banda armata contro la sicurezza dello Stato” e come tale fui deferito al Tribunale Speciale e carcerato in attesa nella Torre dei Balivi. Ivi, mesi dopo, un compagno più esperto mi indusse ad avvalermi fittiziamente della possibilità per i carcerati di essere tradotti nei reparti che combattevano gli Alleati sull’Appennino. Durante la traduzione riuscii a recuperare la clandestinità, partecipando poi alla liberazione di Cuneo.”
Nel settembre 2007, mentre si preparava la pubblicazione di “Tutti i numeri sono uguali a 5” (ed. Springer, a cura di Daniele Gouthier), “L’Espresso” pubblicò un documento trovato negli archivi di Yad Vashem (l’Istituto per la memoria della Shoah) di Gerusalemme. Si tratta di una deposizione di Primo Levi, in cui lo scrittore dà conto delle sue vicende a partire dal 9 settembre 1943 e fino al ritorno a casa, nell’ottobre 1945. Eccola:
Roma 14 Giugno 1960
DEPOSIZIONE DEL DOTT. PRIMO LEVI abitante in Torino – C. Vittorio 67
Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d’Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione. Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo GUIDO BACHI, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della Soc. OLIVETTI, CESARE VITA, LUCIANA NISSIM sposatasi poi con Momigliano e attualmente domiciliata a Milano e autrice del libro: “Donne contro il mostro”; WANDA MAESTRO, deportata e deceduta in un campo di sterminio.
Si aggregò a noi un tale che si faceva chiamare MEOLI e che, essendo una spia non tardò a denunciarci. Ad eccezione di CESARE VITA, che riuscì a fuggire, fummo tutti arrestati il 13 settembre 1943 e trasferiti ad AOSTA nella caserma della Milizia Fascista. Lì trovammo il centurione FERRO, il quale, saputo che eravamo tutti laureati, ci trattò benevolmente; egli fu poi ucciso dai partigiani nel 1945. Debbo confessare che, come partigiani, noi eravamo piuttosto inesperti; non meno inesperti però ci apparvero i militi fascisti che imbastirono una specie di processo. C’era fra loro un italiano dell’Alto Adige che parlava perfettamente il tedesco; un certo CAGNI che aveva già denunciato un’altra banda partigiana e c’era pure il “nostro” MEOLI.
Essi pretendevano da noi i nomi di altri partigiani e sopra tutto quelli dei capi. Per quanto forniti di documenti falsi, dichiarammo subito di esser ebrei, il che ci risultò poi vantaggioso, dato che la perquisizione effettuata nelle nostre stanze fu talmente superficiale che nella mia non vennero neppure rinvenuti i fogli clandestini e la rivoltella che vi avevo nascosti. Il centurione, appreso che eravamo ebrei e non dei “veri partigiani” ci disse: “Non vi succederà nulla di male; vi invieremo al campo di FOSSOLI, presso Modena.”
Ci veniva regolarmente distribuita la razione di vitto destinata ai soldati e alla fine di gennaio 1944 ci portarono a Fossoli con un treno passeggeri.
In quel campo si stava allora abbastanza bene; non si parlava di eccidi e l’atmosfera era sufficientemente serena; ci permisero di trattenere il denaro che avevamo portato con noi e di riceverne altro da fuori. Lavorammo in cucina a turno e assolvemmo altri servizi nel campo, fu organizzata anche una mensa, in verità piuttosto scarsa!!
Trovai a Fossoli ARTURO FOA’ di Torino, che guardavamo con certa diffidenza conoscendo le sue simpatie per il Fascismo; tutti i mendicanti del ghetto di Venezia e i vecchi di quell’ospizio. Ricordo una certa Scaramella e una USIGLI. C’erano pure da 2 a 300 jugoslavi e alcuni sudditi inglesi.
Quando il 18 febbraio apprendemmo che erano giunte in paese le SS tedesche, ci allarmammo tutti e infatti il giorno successivo ci avvertirono che saremmo partiti entro 24 ore. Nessuno tentò di fuggire.
Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: “Auschwitz” nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla….. Il viaggio durò tre giorni e mezzo; avevamo preparato una scorta collettiva di viveri che ci avevano autorizzato a recare con noi. Eravamo 650 ebrei….
_Durante il viaggio la scorta di SS si dimostrò dura e inumana; molti furono picchiati a sangue. All’arrivo ad Auschwitz ci chiesero chi fosse capace di lavorare. Rispondemmo in 96 affermativamente, dopo di che ci condussero a 7 km. dal campo a BUNA MANOWITZ (in realtà Monowitz ndr.). Ventisei donne capaci di lavorare furono trasferite al campo di lavoro di Birkenau; tutti gli altri furono avviati alle camere a gaz!
Nel nostro campo di lavoro v’erano alcuni medici ebrei. Ricordo il Dott. COENKA di Atene, il Dott. WEISS di Strasburgo, il Dott. ORENSZTEJN, polacco che si comportarono assai bene; non posso dire la stessa cosa del Dott. SAMUELIDIS di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle SS tedesche! Parecchi medici francesi di nome LEVY risultarono invece piuttosto umani!
Poiché Daniele Gouthier, curatore di “Tutti numeri sono uguali a cinque”, ritenne di rilevare una lieve “differenza” tra il racconto di Levi e quello di Piacenza e di ravvisare lo stesso Piacenza sotto il nome di Cesare Vita, il 21 settembre 2007 fornii all’avv. Piacenza il testo della deposizione di Levi chiedendogli chiarimenti. Pochi giorni dopo, l’avv. Piacenza mi diede per iscritto su carta intestata del suo studio legale con data 26/9/07 un chiarimento molto esaustivo. Nel testo, di suo pugno, si legge:
“La ringrazio della sua gentile comunicazione del 21 corr. In realtà la ‘differenza’ su Cesare Vita non sussiste: è Gouthier a parlarne come ‘ultimo arrestato che poi riesce a fuggire’ ma, è chiarito nella deposizione del 14/6/60 di Levi, i 5 ebrei che egli menziona (se stesso, Bachi, Nissim, Maestro, Cesare Vita) furono tutti arrestati ‘ad eccezione di Cesare Vita che riuscì a fuggire’.
Giova un chiarimento topografico: la nostra ‘banda’ si chiamava ‘Banda Amay’ (la piccolissima frazione Amay fa ancora parte del Comune di Saint Vincent, benché a 2 ore di mulattiera e ad alta quota, presso il colle di Joux e più vicina a Brusson) ed in quel periodo di iniziale e provvisoria organizzazione non aveva neppure una sede unica: io Levi, Nissim e Maestro abitavamo in una minuscola trattoria, ivi; Bachi in una casetta non lontana e la parte principale della banda (1 sergente e circa 15 civili o ex militari) erano allogati nelle grange dell’alpeggio un poco soprastante.
I fascisti fecero prigionieri, nella frazione, Levi, Bachi, Nissim, Maestro e me. Poscia salirono all’alpeggio ma –come forse già le dissi a suo tempo – prima di loro era riuscito a salire un coraggioso montanaro della zona che avvertì i partigiani ivi siti, i quali, stante la quasi assoluta assenza di armi e temendo che in caso di resistenza i fascisti si vendicassero su di noi prigionieri, si ritirarono altrove. Tra quei partigiani era ovviamente il Cesare poiché faceva parte di quelli allogati colà. Ritengo di averne sempre ignorato il cognome (così come quello di tutti gli altri).
Resto a sua disposizione occorrendo. Molte cordialità. A. Piacenza
P.S. Nella deposizione Levi è indicata, come data dell’arresto, il 13 settembre, ma appare evidente errore: trattasi del 13 dicembre: vedasi rapporto (che lei ha) del Capo Provincia Aosta.”
In seguito alla pubblicazione nella primavera 2013 di “Partigia” da parte dello storico Sergio Luzzatto e alla conseguente polemica sorta su “La Stampa” tra lui e Alberto Cavaglion a proposito del “segreto brutto” di cui parla Primo Levi nel “Sistema periodico” – la fucilazione eseguita da appartenenti alla banda di Amay di due giovani, Luciano Zabaldano, 17 anni, e Fulvio Oppezzo, 18 anni – il del 7 giugno 2013, ore 17, ho incontrato l’avv. Aldo Piacenza per raccogliere una sua dichiarazione in proposito.
Secondo la tesi di Cavaglion la fucilazione fu decisa dai compagni partigiani in quanto con il loro comportamento antisemita avrebbero indotto al suicidio una donna ebrea tedesca abitante a Brusson. Secondo altri, i due giovani sarebbero stati intemperanti nei confronti della popolazione locale e, richiamati, avrebbero minacciato delazioni. Ecco quanto ho potuto raccogliere dall’avv. Piacenza il 7 giugno 2013:
“Anni fa più volte alcuni parenti di Luciano Zabaldano mi hanno cercato per sapere se avevo notizie sull’uccisione di Luciano. Non ne potevo avere perché la mia banda partigiana operava sul versante della valle di Saint Vincent e non avevamo rapporti diretti con il gruppo di partigiani della valle accanto, che operava intorno ad Arcesaz, a valle di Brusson. Qualche contatto avveniva attraverso il Col de Joux, che unisce le due valli ,ma non mi risulta in quel breve periodo che trascorremmo in Valle d’Aosta prima della cattura, avvenuta la mattina del 13 dicembre. Dopo la cattura della nostra banda da parte dei fascisti, Levi e gli altri ebrei furono avviati verso i lager. Io, in quanto non ebreo, dopo un periodo di detenzione ad Aosta, ebbi come tutti gli altri non ebrei l’offerta di rientrare nell’esercito e di collaborare con la Repubblica di Salò combattendo contro gli Alleati sulla Linea Gotica. Non c’erano molte alternative: o si accettava, come fecero tutti o quasi, o si finiva fucilati. Mi dichiarai quindi disposto a rientrare nell’esercito. Nel trasferimento verso il fronte sull’Appennino riuscii però a fuggire. Mi riparai per beve tempo presso la mia famiglia a Racconigi e poi di qui mi unii ai partigiani di Giustizia e Libertà che agivano nel Cuneese. Partecipai quindi alla liberazione di Cuneo il 28 aprile 1945, ma devo dire che fu impresa fin troppo facile: entrammo nella città quasi senza trovare opposizione. Ci fu credo, un solo morto, che vidi steso in mezzo alla via principale della città, non so neanche se fascista o partigiano. Noi ci guardavamo dai vivi, ai morti non facevamo caso. Ci conoscevamo anche poco tra di noi partigiani. Non ricordo, per esempio Giorgio Bocca. Ma ciò non deve stupire perché ognuno aveva adottato un nome di battaglia e i nomi veri spesso non li conoscevamo. Soprattutto all’inizio, poi, parlo del tempo della Valle d’Aosta, tutto era molto disorganizzato e casuale. Aggiungo che conobbi Primo Levi e ci unimmo nella banda partigiana della valle di Saint Vincent in quanto ero stato compagno di liceo di sua sorella (Anna Maria) al Liceo d’Azeglio.”.
La verità sulla vicenda del suicidio della donna ebrea tedesca residente a Brusson e della fucilazione dei due giovani partigiani sembra dunque essere più semplice di quanto le parti in polemica tra loro sostengono, ed è tale anche rispetto alla versione dei discendenti di una delle due povere vittime, cioè di Luciano Zabaldano. Nel drammatico episodio in questione, avvenuto immediatamente prima del rastrellamento fascista, poteva essere coinvolta anche la banda di Arcesaz, che era più numerosa e organizzata. I rapporti tra le bande erano fragili e discontinui. Imprecisa la reciproca conoscenza. Gli eventi di cui furono protagoniste le due bande risultano approssimativamente contemporanei ma non hanno necessariamente nessi causali.
C’è poi una evidente “verità” letteraria: è chiarissimo, se si tiene conto del contesto, che quando Primo Levi parla della sua cattura da parte dei fascisti come di cosa logica e quasi “meritata”, non fa riferimento a una “giustizia” fatta, sia pure indirettamente, riguardo all’episodio della fucilazione ma, appunto, a una “punizione” dell’inesperienza e dell’ingenuità dei giovani partigiani nel volersi misurare con una impresa più grande di loro, pochi idealisti disorganizzati, contrapposti all’organizzazione potente dei fascisti di Salò.
Il 30 luglio 2013 alle 3 di notte , come già detto, Aldo Piacenza si è spento. La sua scomparsa ha così sigillato per sempre la tormentata vicenda. Questo il breve articolo di commiato che ho scritto per “La Stampa”, pubblicato il 31 luglio nelle pagine della Cultura:
A 92 anni si è spento Aldo Piacenza, il capo partigiano di Primo Levi. Entrambi, con uno sparuto drappello di compagni e compagne, furono arrestati dai fascisti di Salò all’alba del 13 dicembre 1943 sulle montagne valdostane che sovrastano Saint Vincent, e lì si separarono i loro destini: Primo Levi, chimico e non ancora scrittore, avviato verso il lager di Auschwitz; lui, 22 anni, non ancora avvocato ma già reduce dalla campagna di Russia, imprigionato nella Torre del Balivo di Aosta, interrogato, forzato a fingere collaborazione, poi di nuovo clandestino e di nuovo partigiano, uno di quelli che liberarono Cuneo nell’aprile 1945.
Come spesso succede nella vita, un fattore casuale portò Aldo Piacenza e Primo Levi sulle montagne della Valle d’Aosta: Aldo Piacenza era stato compagno di scuola di Anna Maria, sorella minore di Primo, al liceo d’Azeglio di Torino, e questa conoscenza nata sui banchi di scuola aveva a sua volta generato il contatto tra il futuro avvocato e il futuro chimico. Anna Maria si è spenta a 92 anni il 26 giugno 2013 a Roma, un mese prima del suo compagno di liceo.
Di Aldo Piacenza si è parlato molto nelle scorse settimane dopo la pubblicazione di “Partigia”, libro in cui lo storico Sergio Luzzatto ha ricostruito vicende e personaggi della banda di Primo Levi. Luci e ombre, perché poco prima dell’arresto si colloca l’episodio che nel “Sistema periodico” Levi definirà “segreto brutto”: l’uccisione di due giovani che si erano uniti all’attigua banda di Brusson ma potevano essere sospettati di comportamenti sconvenienti e forse ambigui. Su questa ferita non ancora rimarginata, si è accesa una polemica storico-letteraria con Alberto Cavaglion, e ancora una volta Piacenza è stato costretto a frugare in ricordi ormai sempre più appannati.
Fino all’ultimo sorridente, cordiale, dotato di una ironia gentile, Piacenza dopo la giovanile esperienza militare e partigiana, si dedicò per cinquant’anni alla sua professione di avvocato, ma la sorte l’ha portato ad abitare nello stesso stabile di Bianca Guidetti Serra, destinataria del biglietto con il quale Levi annunciava alla famiglia la deportazione ad Auschwitz insieme con Vanda Maestro e Luciana Nissim. Dietro la banda partigiana di Brusson c’era una regia che risaliva a Camillo Reynaud, Aurelio Peccei e alla cerchia di Olivetti: troppo lontana per farsi percepire. Della lotta per la libertà Piacenza dava una versione di basso profilo. Insisteva sull’improvvisazione e sulla inadeguatezza di uomini e mezzi. Lo stesso atteggiamento riduttivo di Primo Levi. Non eroi ma ragazzi sorpresi nel guado tra incoscienza e utopia.