Come sommare rapidamente tutti i numeri da 1 a 100? Carl Friedrich Gauss, mettendo in una riga tutti i numeri da 1 a 100 e nella riga sottostante i numeri da 100 a 1, notò che ogni colonna dava sempre come somma 101: fece dunque il prodotto 100×101 e divise per 2, ottenendo rapidamente il risultato (5050). Aveva 9 anni… Altro problema: sapreste formare quattro triangoli con tre matite? Sembra impossibile. E lo è, se, come fa la maggior parte di noi, proviamo a disporre le matite su un tavolo. Ma i quattro triangoli saltano fuori mettendo le matite in tre dimensioni per formare un tetraedro, cioè una piramide a base triangolare.
Questo è un esempio classico del “pensiero laterale” studiato e teorizzato da Edward De Bono, psicologo della creatività nato a Malta nel 1933, autore di una settantina di libri tradotti in 38 lingue e consulente di aziende e governi di una cinquantina di paesi (non dell’Italia, suppongo). Altri studiosi molto noti del pensiero creativo sono Richard Florida dell’Università di Toronto e Keith Simonton dell’Ucla (Università della California, Los Angeles). Entrambi però, come De Bono, si sono dedicati soprattutto agli aspetti della creatività applicata in campo imprenditoriale e manageriale, con scarsa attenzione a quanto avviene nella scuola. Tra gli studiosi italiani più interessati alla creatività vista sia nelle sue espressioni artistiche sia in quelle scientifiche e tecnologiche spicca Paolo Legrenzi, docente di psicologia cognitiva allo Iuav di Venezia e autore per il Mulino del saggio “Creatività e innovazione”. Anche Massimo Piattelli Palmarini se n’è occupato, sia pure incidentalmente, e proprio con riferimento alla scuola. Che il tema sia attuale si può misurare bene dal fatto che – in data 18 giugno 2011 – nel web trattano di creatività 182 milioni di siti (18 milioni in Italia).
Con soluzioni prefabbricate non si va lontano se il problema da risolvere è nuovo. Come conciliare il comodo accumulo di nozioni acquisite fornito dalla scuola con la capacità di escogitare soluzioni innovative?
Una iniezione di “pensiero laterale” farebbe molto bene agli studenti, alla ricerca scientifica e all’innovazione industriale del nostro paese. Perché, almeno in questi settori, l’Italia non è affatto un paese popolato da geni della creatività come si cerca di far credere quando si parla di alta moda o di design. Nelle richieste di brevetti internazionali veniamo dopo Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia e Svizzera. Nell’esportazione di prodotti ad alta tecnologia siamo sotto la media europea. Né sono confortanti i dati PISA-OCSE sulle doti di problem solving dei nostri studenti. Neuroscienze e psicologia cognitiva negli ultimi tempi hanno molto insistito sulla plasticità cerebrale e sul fatto che occorre innanzi tutto “imparare a imparare”. Tali acquisizioni sono molto interessanti per il nostro discorso. «Considero il pensiero creativo – scrive De Bono – come una forma particolare di trattamento delle informazioni, che dovrebbe trovare un posto a fianco degli altri metodi che utilizziamo: la matematica, l’analisi logica, la simulazione al computer e così via. In tutto questo non c’è bisogno della mistica. E’ un fatto assolutamente normale che una persona si sieda alla scrivania con la precisa intenzione di generare un’idea in un certo tempo e che a questo scopo ricorra sistematicamente a una tecnica specifica del pensiero laterale.»
Dunque secondo De Bono, almeno in una certa misura, la creatività si può imparare. E creativi si diventa, talvolta anche con semplici trucchi. Quando non riusciamo a risolvere un problema e ci imbattiamo sempre nella stessa difficoltà paralizzante, De Bono consiglia di aprire a caso una pagina di giornale, leggere l’ultima parola dell’ultima colonna e ripartire di lì, con una libera serie associazioni mentali, per aggredire l’ostacolo. Un meccanismo simile è alla base del “brain storming”. L’obiettivo è sempre quello di liberare il cervello dalle sue catene. Una recente ricerca firmata da neuroscienziati dell’Università di Harvard e dell’Università di Toronto indica che le persone creative hanno un livello più basso di «inibizione latente». Per creare occorre liberarsi dai condizionamenti delle soluzioni vecchie o non funzionanti, e anche osare, andare contro l’autorità, contro pregiudizi e convenzioni.
Torniamo all’esempio dei quattro triangoli da comporre con tre matite. Per riuscirci bisogna uscire dall’analisi del problema in due dimensioni, sul piano del tavolo, e fare un salto nello spazio tridimensionale. Roger Sperry nel 1981 ebbe il premio Nobel per aver dimostrato che i nostri emisferi cerebrali sono specializzati: quello sinistro sarebbe essenzialmente analitico, razionale, linguistico; quello destro sarebbe invece sintetico e dedicato alla percezione dello spazio. L’emisfero sinistro, inoltre, sarebbe nella maggioranza delle persone dominante su quello destro. Questa concezione è oggi quasi del tutto abbandonata sulla base di nuove acquisizioni delle neuroscienze. Ma fino a tempi recenti si è ritenuto che il pensiero laterale – forse è meglio chiamarlo “divergente”, come fa Joy Paul Guilford – fosse quello capace di saltare da un emisfero all’altro, e metterli in relazione.
Nuovi e potenti strumenti diagnostici come la risonanza magnetica funzionale oggi permettono di osservare il cervello mentre lavora, cogliendo le aree che si attivano quando pensiamo o quando facciamo un’esperienza artistica. La musica, ad esempio, «accende» soprattutto l’emisfero destro. La risoluzione spaziale di queste tecniche è dell’ordine di un millimetro e quella temporale di 2 decimi di secondo: benché sia difficile ottenerle entrambe contemporaneamente, c’è forse la speranza di afferrare l’istante in cui scocca la scintilla creativa.
Vinod Goel, della New York University di Toronto, ha condotto un’indagine mediante risonanza magnetica funzionale su persone impegnate in compiti di generazione di ipotesi che implicavano un cambiamento di set mentale. I risultati indicano che un sistema neurale pre-frontale bilaterale è attivato nelle trasformazioni laterali. Suggestivo. Ma ricordiamoci che questi strumenti forniscono solo indicazioni ancora molto grossolane su processi che invece sono estremamente complessi e soggetti a un grande numero di variabili. Il puro riduzionismo è un metodo troppo grezzo per sondare la mente di uno scienziato che sta risolvendo un problema o di uno scrittore che sta immaginando la trama di un racconto.
Come si può dedurre persino dalla lettura di lavori divulgativi come “La créativité” di Michel-Louis Rouquette (Puf), il già citato “Creatività e innovazione” di Paolo Legrenzi o “Intelligenza e creatività” di Ornella Andreani Dentici (Carocci), indicazioni interessanti si possono ricavare da una semplice fenomenologia dei prodotti creativi che accompagnano la vita quotidiana. Quasi tutto ciò che abbiamo intorno a noi è frutto della creatività: tv, computer, automobili, telefono, medicine; ma anche poesie, romanzi, musica, film, quadri. La civiltà stessa è il risultato di questa meravigliosa capacità di mettere insieme ciò che la natura ci offre, dai materiali ai colori ai suoni, dalle fonti di energia ai fenomeni fisici, chimici e biologici. Ma il prodotto della creatività non è il semplice accostamento di vari ingredienti (tela e colori per i quadri, ingranaggi per le macchine, suoni e voci per la musica). Ciò che conta è il modo originale, innovativo e funzionale con cui questi ingredienti sono stati messi insieme.
Tra le doti della personalità umana, la creatività rimane una delle più misteriose. Memoria e apprendimento, per esempio, si valutano abbastanza facilmente per mezzo di test. Gli esami scolastici puntano a misurare proprio queste abilità, sia pure con esiti più o meno convincenti. La capacità di inventare, scoprire e creare cose nuove, risolvere all’improvviso un problema che per anni ha tormentato decine di scienziati, è invece una dote rara ed elusiva, difficilmente misurabile: spesso neppure la persona creativa è consapevole dei meccanismi che la portano a inventare, scoprire leggi della natura, dipingere, comporre musica.
Gli psicologi, tuttavia, hanno tentato di analizzare la creatività. Per il campo scientifico un buon metodo è quello di studiare come si è arrivati a scoperte e invenzioni. Famoso è l’aneddoto che come protagonista Archimede, matematico greco vissuto nel III secolo prima di Cristo. Il tiranno Ierone gli aveva chiesto di verificare se la sua corona fosse realmente tutta d’oro. Il peso corrispondeva, ma l’artigiano poteva aver usato una lega di altri metalli, ingannando il tiranno. Occorreva misurare non solo il peso della corona, ma anche la densità del materiale di cui era fatta. E per misurarne la densità occorreva conoscerne il volume. Archimede provò con metodi matematici. Invano. Troppo complicato: la corona non era né un cilindro, né un cono, né una sfera. Poi, un giorno, immergendosi per fare il bagno in una vasca ben colma, notò che aveva fatto versare fuori acqua in quantità uguale al volume del suo corpo. Dunque per conoscere il volume della corona sarebbe bastato misurare quanta acqua avrebbe fatto uscire da un vaso pieno fino all’orlo. Secondo la leggenda, Archimede provò una tale gioia che balzò fuori dalla vasca e corse nudo per la strada gridando “Eureka!”, “Ho trovato!”.
Vera o falsa che sia, questa storia rappresenta bene le varie fasi di un processo creativo. C’è un problema da risolvere: accertare che la corona sia davvero tutta d’oro. All’inizio si cerca la soluzione con metodi già noti (la geometria). Se questo sistema non dà risultati, si arriva a un punto morto. Occorre guardare al problema da un punto di vista diverso. Qui si innesta l’atto creativo: mettere insieme il fatto che un oggetto, qualunque forma abbia, sposta un volume di acqua pari al proprio volume, e il fatto che l’acqua è liquida, quindi può essere contenuta in un vaso di forma geometrica regolare facilmente calcolabile (cilindro, cubo…).
L’analogia con l’umorismo
Alcuni psicologi hanno osservato che i meccanismi creativi somigliano molto, per certi aspetti, a quelli dell’umorismo: anche nei giochi di parole, nelle gag dei film o nelle barzellette avviene un improvviso rovesciamento del punto di vista, che cambia in modo imprevedibile e originale il senso del discorso o della situazione. «Caro, che ne diresti di una bella serata divertente?» «Magnifica idea, cara. Ciao, ci vediamo domattina.». Il rovesciamento del punto di vista non potrebbe essere più esplicito. Tipica dell’umorismo – come ha fatto notare lo psicologo Giovannantonio Forabosco – è la duplice possibilità di lettura di una storia: dapprima seguiamo il percorso più ovvio e prevedibile, ma ad in un preciso snodo del racconto un indizio prospetta improvvisamente un’altra possibilità di lettura: “Signorina, anche questa mattina lei si presenta al lavoro in ritardo!” “Ha ragione, ma un uomo mi seguiva…” “Un motivo per arrivare prima!” “Eh no, dottore: camminava così lentamente…”. Altro esempio. Un paziente si sveglia e vede davanti a sé un uomo in camice bianco e con una lunga barba: “Professore, com’è andata l’operazione?”. “Non sono un chirurgo, sono San Pietro!”.
Osservare tramite Risonanza Magnetica funzionale le zone del cervello che si accendono nell’istante in cui comprendiamo il senso di una barzelletta sarebbe probabilmente istruttivo anche riguardo ai meccanismi della creatività: è un esperimento che auspico da più di dieci anni e spero che prima o poi possa essere fatto. Interessati a ricerche di questo tipo sono in Italia Paolo Nichelli (direttore della Neurochirurgia dell’Università di Modena e Reggio) e Angela Bartolo (Laboratoire Eureka, Université Charles De Gaulle Lille III), che ha pubblicato studi condotti con risonanza magnetica funzionale sull’umorismo e sulla concettualizzazione come funzione esecutiva analoga alla creatività. Altri lavori in questo filone svolgono Robert Logie all’Università di Edinburgo, David Pearson alla University of Aberdeen e il già citato Vinod Goel all’Università di Toronto.
Esiste però una differenza profonda tra la creatività scientifica e quella artistica. La prima richiede la perfetta conoscenza di tutto quanto hanno già scoperto e inventato gli altri prima di noi; la seconda non ha questa necessità (anche se conoscere la storia delle arti non guasta!). Ciò dipende dal fatto che la scienza è frutto di un lavoro collettivo: le scoperte di chi ci ha preceduto sono gli ingredienti per scoprire e inventare cose nuove. Nell’arte invece conta di più la singola personalità del pittore, del musicista, del poeta. Ma in entrambi i campi la creatività deve rispettare delle regole. La pura stravaganza (come spesso avviene nella moda o nell’arte) non è creatività genuina. Il modo nuovo di concepire il problema da risolvere, il quadro da dipingere o la storia da raccontare è il primo passo ma dopo questo atto controcorrente la creatività deve applicare norme precise, richiede metodo e fatica. Arte e scienza sono al 10 per cento ispirazione, al 90 per cento traspirazione, cioè sudore.
Poiché la creatività artistica dipende soprattutto dalla personalità individuale e dai suoi talenti naturali, non si può fare granché per farla crescere. Certo aiuta vivere in un ambiente stimolante, andare a bottega da un buon maestro ed avere tempo libero: i mecenati del Rinascimento – si pensi a Lorenzo de’ Medici – ospitavano generosamente gli artisti che chiamavano alla loro corte, favorendone così la produttività. Ma nonostante questi aiuti, la poesia, l’arte, la musica non possono nascere “a comando”. Anzi: sono numerosi gli artisti che hanno prodotto opere grandiose proprio perché poveri, perseguitati o in cattiva salute. Dante Alighieri e Giacomo Leopardi ne sono due esempi. Persino i vincoli possono trasformarsi in opportunità creative: basta pensare a quanto è stata feconda per la poesia la rigida forma metrica del sonetto, così complicata con i i suoi 14 endecasillabi divisi in due quartine e due terzine con rime incrociate.
Nel caso della creatività scientifica e tecnologica, invece, non solo è più facile predisporre condizioni ambientali che favoriscano la creatività e rimuovano i vincoli, ma è anche necessario farlo. Per individuare queste condizioni, può essere utile – per un insegnante – ricordare come si è arrivati ad alcune scoperte e invenzioni, grandi e piccole. L’aneddotica utilizzabile in aula da un bravo docente per familiarizzare gli studenti con i processi creativi è vastissima e spesso divertente. Ecco qualche esempio.
Alexander Fleming (1881-1955) scoprì il primo antibiotico, la penicillina. Il suo lavoro in un ospedale di Londra consisteva nel coltivare colonie di batteri su supporti di vetro predisposti con apposite sostanze nutrenti di uso comune nei laboratori (le capsule di Petri). Nell’agosto 1928 partì per le vacanze dimenticando alcune di queste capsule. Al ritorno trovò che una muffa le aveva ricoperte. Invece di gettarle via, le osservò attentamente: si accorse così che la muffa aveva ucciso tutti i batteri. Era, appunto, la penicillina. Bisognerà però aspettare ancora dodici anni perché, grazie al medico Howard Florey e al chimico Ernest Chain, quella muffa, di per sé inutilizzabile, diventasse un farmaco.
Altra storia. Molti di noi hanno abiti che si chiudono con il velcro. L’idea venne nel 1948 a George De Mestral, un ingegnere svizzero che passeggiando nei prati si era ritrovato attaccati alle calze i frutti di una pianta chiamata lappola. Incuriosito, li guardò al microscopio e scoprì che le loro punte terminavano in minuscoli uncini che si attaccavano ai gomitolini, anch’essi microscopici, in cui terminava la lana delle calze. Riproducendo questo meccanismo è nato il velcro (dalle parole velours, velluto, e crochet, occhiello). Resiste a oltre 10 mila cicli di apertura: è più veloce e resistente dei bottoni.
Galileo Ferraris inventò il motore elettrico mentre passeggiava sotto i portici di via Cernaia a Torino: l’alternarsi della luce e dell’ombra tra le colonne per analogia gli suggerì l’idea dell’avvolgimento elettrico rotante in un campo magnetico: Carlo Emilio Gadda in una trasmissione radio mise in evidenza il ruolo giocato in quel caso dal pensiero analogico, un potente meccanismo della creatività.
Anche gli incidenti di percorso talvolta si trasformano in stimoli utili per l’innovazione. Una colla mal riuscita finita su un pezzo di carta nei laboratori 3M ha dato origine ai post-it, quei foglietti adesivi utili per lasciare un appunto o per segnare la pagina di un libro. Ascanio Sobrero con la nitroglicerina creò un farmaco tuttora utile ai malati di cuore: Nobel vi aggiunse della farina fossile e nacque la dinamite.
Come pensava Einstein?
Albert Einstein offre gli esempi migliori per presentare in classe i meccanismi creativi allo stato puro (eppure, con il suo forte senso dell’umorismo, fu lui a dire che “il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti”). Come pensava Einstein? Qual è il segreto della sua creatività scientifica?
Intanto non è vero che Albert sia stato un ragazzino ritardato, a meno che ci si voglia fermare al fatto che imparò a parlare verso i due anni. Il piccolo Albert era curioso e andava bene a scuola. A cinque anni il padre gli regalò una bussola: rimase affascinato da quell’ago che seguiva una forza invisibile e misteriosa, il campo magnetico. Per tutta la vita Einstein girerà intorno al concetto di campo, morirà cercando disperatamente una teoria del «campo unificato» che mettesse insieme elettromagnetismo e gravità.
A 16 anni Einstein sognò ad occhi aperti di correre al fianco di un raggio di luce: come gli sarebbe apparsa la luce inseguendola alla sua stessa velocità? E’ la radice della teoria della relatività ristretta (o speciale). Poco dopo quella visione, si rese conto che nelle equazioni di Maxwell la velocità della luce è una costante, non può essere sommata o sottratta alla velocità della sorgente che la emette. Il seme della nuova fisica era già lì, ma nessuno se n’era accorto. Nel mondo di Newton le velocità, compresa quella della luce, si possono sommare e sottrarre, in quello di Maxwell no. Una incrinatura esiziale per la meccanica classica. Come uscirne? Nel marzo del 1905 Einstein ne parlò con l’amico Michele Besso senza venirne a capo. Ma tornando a casa in tram posò lo sguardo sulla torre dell’orologio di Berna, la città dove lavorava all’Ufficio Brevetti, e immaginò che cosa sarebbe successo se quel tram fosse schizzato via alla velocità della luce. Capì che l’orologio gli sarebbe apparso fermo, perché la luce proveniente dalle lancette non avrebbe raggiunto il tram, mentre l’orologio al suo polso avrebbe continuato a ticchettare normalmente. La relatività ristretta era nata, anche se la pubblicazione porterà un titolo dimesso: “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”.
Gli ingredienti fondamentali della creatività in questa vicenda di Einstein ci sono tutti: un esperimento mentale che ribalta il punto di vista abituale (non guardare al raggio di luce come se fossimo fermi al suo passaggio ma come se gli viaggiassimo accanto), il confronto con altre persone intelligenti (l’amico Michele Besso), una illuminazione che riprende in modo concreto l’esperimento mentale (l’osservazione della torre).
Quelli erano anche gli anni nei quali Maria Curie esplorava la radioattività. Ne era venuto fuori un dato sorprendente. Un grammo di radium poteva emettere più di mille calorie all’ora per un tempo illimitato, violando le leggi della chimica e della termodinamica. Da dove veniva tutta quell’energia? Nel 1907 Einstein capì che la soluzione stava nella sua teoria della relatività, che considera energia e massa intercambiabili ma con un fattore di moltiplicazione enorme, pari alla velocità della luce elevata al quadrato. L’energia del radium veniva dalla trasformazione in energia di una minima quantità di massa. Di qui sarebbe discesa la bomba atomica.
Già nel 1905 Albert aveva avuto un’altra intuizione geniale per spiegare come la luce colpendo un metallo possa produrre una corrente elettrica. La luce, pensò Einstein, può anche essere vista come un flusso di palline, i fotoni (fu lui a coniare la parola), e queste palline hanno energia proporzionale alla frequenza. Una pallina con energia adeguata può spostare un elettrone intorno al nucleo di un atomo, generando una corrente. E’ l’effetto fotoelettrico, regolato dalle leggi della meccanica quantistica. Sedici anni dopo per questa idea riceverà il premio Nobel.
Nel frattempo Einstein aveva fatto un altro esperimento mentale. Che cosa avrebbe provato dentro un ascensore in caduta libera? Risposta: l’assenza di peso. E’ implicita l’identità di massa gravitazionale e massa inerziale. Poi attuò un altro rovesciamento del punto di vista. A noi sembra che la Terra attiri l’ascensore e il Sole i pianeti. E Newton ci ha detto che mele, ascensori e pianeti cadono per via di questa attrazione, ma i pianeti – diversamente da mele e ascensori – non si schiantano perché cadono esattamente con la velocità necessaria a mantenersi in orbita. Però le cose potrebbero essere diverse, pensò Einstein: la massa del Sole deforma lo spazio incurvandolo, e il pianeta non può far altro che seguire questa curvatura. Nessuna attrazione: tutto si riduce a un fatto di geometria. Una eclisse totale nel 1919 permetterà a Eddington di verificare che in realtà il Sole, come ogni massa, distorce lo spazio intorno a sé. Oggi conosciamo centinaia di «lenti gravitazionali» e ci servono da telescopi naturali per concentrare la luce di astri lontanissimi, sulla frontiera dell’universo.
L’importanza dell’ambiente
Per la creatività scientifica l’ambiente e le opportunità in cui ci si imbatte nei primi anni di vita sono essenziali, e questo è un dato essenziale se ci si interroga sul rapporto tra scuola e sviluppo delle potenzialità creative. Un solo esempio, scelto apposta non tra i più noti e oleografici. Federico Capasso, fisico italiano trapiantato negli Stati Uniti, inventore del laser a cascata quantica e di nuovi tipi di transistor, oggi professore di fisica applicata alla Harvard University, autore di 300 pubblicazioni e detentore di 52 brevetti, ha pubblicato una autobiografia («Avventure di un designer quantico», Di Renzo Editore) molto istruttiva proprio sotto l’aspetto dello sviluppo della creatività. Stando un po’ attenti, dal suo racconto affiorano tutti i fattori che favoriscono lo sviluppo di una personalità creativa. Capasso era un bambino di 8 anni quando il padre gli regalò un libro di Walt Disney intitolato «Il nostro amico atomo»: leggendolo scoprì la sua vocazione scientifica. Sempre il padre gli trasmise l’importanza dell’autonomia di pensiero: «Non diventare un cervello attaccapanni!», gli diceva. Inoltre i genitori lo costrinsero a imparare bene l’inglese affiancandogli una ragazza alla pari venuta dall’Inghilterra e lo incitarono a «mettere le ali» e a diventare «cittadino del mondo». Ancora: Francesco De Martini, suo professore di fisica all’Università di Roma, gli infuse l’entusiasmo per la ricerca e gli ribadì l’importanza di sviluppare un pensiero originale. Sposata la figlia di Giorgio Salvini (uno dei fisici italiani più illustri: anche le parentele aiutano), Capasso si trasferì negli Stati Uniti ai Laboratori della Bell Telephone, una fucina di Nobel. Qui trovò le altre condizioni favorevoli alla creatività: libertà di ricerca, buoni finanziamenti, assenza di burocrazia, mentalità pragmatica, un ambiente stimolante grazie a frequentissimi seminari interdisciplinari tenuti da personalità di alto livello, un clima di forte competizione che però non escludeva la collaborazione.
Che cosa hanno in comune le vicende di creatività scientifica o tecnologica grandi e piccole che abbiamo richiamato?
In esse, oltre al “pensiero divergente”, troviamo fattori come la curiosità, le esperienze fatte da bambini, un ambiente non provinciale, la cultura generale unita alla cultura specialistica, la capacità di analisi unita alla capacità di sintesi, prontezza nell’intuire analogie tra cose e fenomeni diversi, rapporti umani stimolanti, finanziamenti adeguati, un supporto industriale per gli sviluppi di mercato. In generale la mente creativa procede un po’ per “illuminazioni” (insight) e un po’ per “prova ed errore”. Inoltre il caso svolge spesso un ruolo importante. Ma il caso – come ha fatto notare il biologo Louis Pasteur (1822-1895) – aiuta soltanto le persone preparate. E’ la condizione che gli inglesi chiamano “serendipity”: il dono di osservare “ingenuamente” cose banali, ma con uno sguardo colto, intelligente, originale.
La scuola italiana aiuta la creatività? Di solito no. La scuola fornisce nozioni, dati, cultura: tutte condizioni utili anche alla creatività. Ma per svolgere questo compito quasi sempre incanala le menti verso soluzioni già consolidate e presenta i problemi già formulati in modo che si arrivi a quelle soluzioni. Né sarebbe facile fare diversamente, dal momento che la scuola deve pur trasmettere nozioni secondo i programmi ministeriali, e guai se non lo facesse.
Murray Gell-Mann, l’ideatore dei quark, premio Nobel per la fisica, in un suo libro racconta la storia di uno studente che alla domanda “Come misurerebbe l’altezza di una torre usando un barometro?” viene bocciato perché non risponde nel modo scolasticamente ovvio (cioè rilevando la differenza di pressione atmosferica tra la base della torre e la cima) ma escogitando mezza dozzina di metodi creativi (mediante l’ombra proiettata dal barometro e dalla torre, gettando il barometro dalla cima della torre, usandolo per fare un pendolo e così via, fino a offrire il barometro in regalo al custode della torre in cambio dell’informazione sull’altezza). Ma quale scuola premia il pensiero divergente, considerato che le nozioni richiedono proprio il suo contrario, il pensiero convergente?
Lo sviluppo della creatività ha bisogno di un ambiente non dogmatico, non autoritario, che aiuti a uscire dai luoghi comuni. La scuola è ordine e lavoro, la creatività libertà e divertimento. Ma la seconda non è possibile senza la prima. E’ questo il dilemma da affrontare e risolvere. Possibilmente in modo creativo.
Qualche libro utile
- Michael Gelb, “Il genio che c’è in te”, Il Saggiatore
- Elkhonon Goldberg, “Il paradosso della saggezza”, Ponte alle Grazie
- Alberto Oliverio, “Come nasce un’idea”, Rizzoli
- Nancy Andreasen, “The creating brain”, Plume
- Keith Sawyer, “Explaining creativity”, Oxford University Press
(dopo una conferenza per l’Associazione Subalpina Mathesis, 2011)