Forse la materia oscura non serve più

L’astrofisica Maggie Aderin-Pocock ha raccolto le immagini inviate dal nuovo formidabile strumento. Il suo libro è un tuffo vertiginoso tra le galassie primordiali. Problemi cosmologici imprevisti. Dall’Europa 10 milioni per risolverli

A Natale regalate – e regalatevi – un vertiginoso tuffo tra le galassie. Muniti del volume solidamente rilegato “La scoperta dell’Universo” (Apogeo, 222 pagine), per 35 euro viaggerete dal nostro umile sistema solare alla frontiera cosmica, lontana 13,8 miliardi di anni luce. Cioè da oggi al Big Bang. Vi accompagnerà l’astrofisica Maggie Aderin-Pocock, conduttrice di “The Sky at Night”, il programma tv della BBC in onda ogni mese dal 1957, omonimo della rivista inglese da qualche tempo disponibile anche in edizione italiana.

Vedere l’infrarosso

Il titolo “La scoperta dell’Universo” sembra enfatico ma è onesto: le sue immagini ce le ha trasmesse “James Webb Space Telescope” (JWST), il più potente telescopio spaziale, lanciato nel 2022 dalla Nasa in collaborazione con l’Esa a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, e poiché questo eccezionale strumento osserva gli oggetti cosmici nell’infrarosso, la visione che ce ne offre è inedita. Inoltre è complementare di quella che da trent’anni ci sta trasmettendo nella luce visibile e nel vicino ultravioletto il glorioso e vetusto “Hubble”. Non c’è dunque da stupirsi se negli ultimi due anni gli astronomi hanno dovuto revisionare alcune delle loro nozioni sull’origine dell’universo, sulle galassie primordiali e sulla loro evoluzione.

In soffitta la materia oscura?

La novità più importante è che i dati di JWT sulle galassie primordiali (foto in alto) sono a favore di una variante della teoria della gravitazione di Newton-Einstein che non richiede l’ipotesi della “materia oscura” (peraltro finora sfuggita a ogni indagine sperimentale). È la Teoria Mond o della “gravità modificata” (Modified Newtonian Dynamics). Spiega Federico Lelli, astronomo dell’Osservatorio di Arcetri, coautore di un articolo su questo tema pubblicato da “The Astrophysical Journal” in giugno: «L’astrofisico Bob Sanders nel 1998 utilizzò la teoria Mond per predire che galassie massive e evolute potessero essere già presenti nell’universo primordiale (a redshift 10). Si tratta di una predizione sorprendente e piuttosto incredibile. Infatti non è stata presa in seria considerazione dalla maggior parte della comunità scientifica per molto tempo. I dati attuali, invece, sembrano proprio confermare la predizione di Bob Sanders secondo cui le galassie massicce si formano in tempi estremamente brevi, dell’ordine di qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang».

Tanti primati

“James Webb” detiene molti primati. È il più costoso oggetto spaziale mai costruito: 10 miliardi di dollari. Ha il più grande specchio astronomico mai lanciato: 6,5 metri, diametro (da confrontare con i 2,4 di “Hubble”, rispetto al quale è 10 volte più potente). È Il più complesso: formano lo specchio 18 tasselli esagonali di berillio rivestiti da una pellicola d’oro allineati con la precisione di un decimillesimo di millimetro. Questo specchio è il più leggero concepibile per le sue dimensioni: ogni tassello pesa solo 20 chilogrammi per un totale di 360, contro gli 825 dello specchio monolitico di “Hubble”. La pellicola d’oro è quella che meglio riflette il vicino e medio infrarosso, da 0,6 a 28 micrometri, banda spettrale mai esplorata con tanto potere di penetrazione.

I fotoni più cari di sempre

I successi scientifici di JWT riscattano i suoi primati negativi: lancio con undici anni di ritardo sulla data programmata, sei volte più alto il costo rispetto al budget stanziato e nella migliore delle ipotesi solo 10 anni di vita operativa perché si esauriranno il propellente per manovrarlo e il refrigerante dei sensori infrarossi, né è possibile fare manutenzione o riparazioni perché il viaggio degli astronauti sarebbe 4 volte la distanza Terra-Luna. I fotoni raccolti da “James Webb” sono più cari che gli astronomi abbiano mai avuto a disposizione.

Discrepanze

Nelle mani degli astronomi, le meravigliose immagini di “Webb” hanno riproposto interrogativi sulla velocità con la quale l’Universo si espande l’Universo, cioè la costante di Hubble. Anche questi dati sono comparsi su “The Astrophysical Journal”. Conoscere la costante di Hubble è fondamentale per comprendere l’evoluzione e il destino finale del cosmo. A rendere un po’ incerta la costante, tuttavia, c’è la cosiddetta tensione di Hubble, cioè la discrepanza tra le diverse misure ottenute da osservazioni e telescopi indipendenti. Il tasso di espansione dell’universo ottenuto dal vecchio telescopio spaziale Hubble è risultato diverso da quello che gli astronomi si aspettavano sulla base delle condizioni iniziali del Big Bang. Dal tasso di espansione fornito da Hubble si deduce una età del cosmo di 13,8 miliardi di anni, che però non corrisponde con esattezza alle stime ricavate dalle osservazioni del satellite Planck lanciato dall’Esa e da altre misure.

Galassia troppo giovane

Analizzando le immagini del JWST, un team di astronomi aveva individuato una galassia anomala, almeno secondo il modello più utilizzato dell’evoluzione cosmica. La galassia era inspiegabilmente luminosa e giovane rispetto all’età attuale dell’universo. I calcoli iniziali la datavano a soli 250 milioni di anni dal Big Bang, un tempo troppo breve perché una galassia del genere potesse evolversi. Inoltre, nelle settimane successive JWST aveva rivelato molte altre – troppe – giovani galassie. Un anno e mezzo dopo, con più dati a disposizione, gli astronomi hanno rivisto l’età stimata della galassia record. Probabilmente risale a 1,2 miliardi di anni dopo il Big Bang, quando le galassie erano già numerose.

In attesa di altri dati

Attualmente tre teorie possono spiegare le osservazioni. La maggior parte dei ricercatori pensa che la soluzione finale al problema delle galassie primordiali arriverà solo quando JWST avrà raccolto più dati e fornito misurazioni più precise delle singole galassie. Il processo di raccolta dei dati richiederà un paio di anni. Ma poi l’eliminazione dei modelli insoddisfacenti dovrebbe essere rapida, poiché ciascuno di essi fornisce previsioni chiare e verificabili. Intanto godiamoci la bellezza estetica delle immagini pubblicate da Maggie Aderin-Pocock.

Finanziamento europeo

Una buona notizia è che per svelare le fasi iniziali dell’universo il 6 novembre il Consiglio europeo della ricerca ha assegnato 10 milioni di euro al progetto RECAP per studiare la cosiddetta era della reionizzazione, un periodo fondamentale della storia cosmica. Questa epoca inizia circa 380 mila anni dopo il Big Bang con la prima comparsa della luce dopo l’”era oscura” nella quale i fotoni venivano subito riassorbiti senza poter viaggiare liberamente. Venne poi un’altra epoca oscura fino a quando non si accesero le prime stelle e/o si formarono le prime galassie. Ma su questo punto non c’è accordo. Il satellite Wmap ha fatto pensare che la reionizzazione sia terminata circa 900 milioni di anni dopo il Big Bang. I dati dello Hubble Space Telescope indicano che le prime stelle si formarono solamente 300-400 milioni di anni dopo il Big Bang. Il satellite Planck ha ridatato la fine definitiva del buio a 550 milioni di anni dopo il Big Bang, rinforzando l’ipotesi che siano state le prime stelle a dare il via alla fine dell’età oscura. Segnare l’inizio e la fine di questa epoca non è che il primo passo verso la conoscenza dei fenomeni che si sono succeduti in quell’arco di tempo. Insomma: questione aperta.

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