Nessuno me lo ha fatto capire meglio di Dino Buzzati. Un suo racconto, se non ricordo male, inizia nel corridoio di un ospedale dove una donna sta morendo. Dalla stanza esce il medico, si avvicina all’uomo innamorato della moribonda e gli annuncia che al trapasso manca meno di un’ora. L’uomo piange disperatamente. Con la ricorsività che contraddistingue tanti racconti di Buzzati, la storia si ripete identica, ma questa volta il medico annuncia che la morte si verificherà entro una settimana. L’uomo piange disperatamente. Nelle versioni successive il tempo che si frappone al trapasso è un anno, poi dieci anni, poi settanta. Sempre l’uomo, che nell’ultima versione è un ragazzo, piange disperatamente.
E’ così. Non è questione di ore o di secoli, quando in gioco c’è qualcosa che amiamo. La perdita è sempre assoluta. Non c’è un infinito più infinito di un altro, se non per i matematici, che notoriamente non hanno cuore. Questa è la prima verità da tener presente nel leggere il romanzo “Miomao” di Beppi Zancan, che è essenzialmente una meditazione sul senso della vita. Cioè, ed è la stessa cosa, sul senso della morte. Un libro tragico, che di conseguenza è intriso di umorismo. Un libro di ispirazione realistica, che di conseguenza è un accumulo di situazioni paradossali, grottesche, surreali.
C’è comunque qualcosa di vero nella numerologia popolare. Sette vite feline fanno una vita umana. E io ho già avuto cinque gatti. Per fortuna il quinto è giovane, praticamente un ragazzino, e porta il nome beneaugurante di La Vie, la vita.
Primo fu il gatto Puccia. Arrivò a Meana, dove ero in vacanza, come regalo per il mio onomastico, San Pietro, il 29 giugno. Avevo allora 8 o 9 anni. Affittavamo da giugno a settembre il secondo piano di una villetta nella parte bassa del paese, vicino a una cascina dal classico cortile rettangolare delimitato dalla stalla (quattro vacche, due capre) e dal fienile. Per tutta la settimana stavo con zia Celestina, detta per antonomasia “la Zia”. Il sabato sera arrivavano mio padre e mia madre. Qualche volta in treno, ma più spesso con una Topolino grigia, una “500 C”, guidata prevalentemente da mia madre. Alla casetta, che aveva un terrazzo con vista sul Rocciamelone e davanti un orto-giardino con una vite a toppia e tante zinnie di tutti colori, portava una stradina sterrata lunga qualche centinaio di metri. Il sabato pomeriggio stavo di vedetta sul terrazzo. Quando la Topolino grigia imboccava la stradina, si alzava una nube di polvere, e allora sapevo che stavano per arrivare. Quella volta arrivarono con un micino soriano. Era così piccolo e naturalmente dotato di grazia, che tutti pensavamo fosse femmina, senza sentire il bisogno di fare verifiche: di qui il nome Puccia, con il quale mi fu presentato. D’altra parte all’epoca l’educazione dei fanciulli voleva che sulle faccende sessuali si sorvolasse con una finta disinvoltura. Avrà avuto un paio di mesi. Striature rigorosamente simmetriche sul musetto e sul corpicino ne facevano il perfetto riassunto di una tigre, così come la lucertola è il perfetto riassunto di un coccodrillo. “A settembre – mi disse mia madre – quando torneremo a Torino, sarà abbastanza grande: lo lasceremo qui, nella cascina ce ne sono già tanti, si troverà bene.”.
Ovviamente Puccia, a fine settembre, riapertura delle scuole, venne con noi a Torino, nel piccolo alloggio di via Quartieri. E quasi altrettanto ovviamente ben presto Puccia si rivelò un maschio dalla virilità molto pronunciata, ma in casa lo si apostrofò sempre un po’ al maschile e un po’ al femminile, cosa che succcederà anche qui. Divenne un gattone di cinque o sei chilogrammi, tutto muscolo, senza un filo di grasso. Quando decideva che era giunta l’ora, incominciava a miagolare gutturalmente davanti alla porta, fino a quando non lo lasciavamo libero di andare a combattere le sue battaglie per la darwiniana affermazione dei geni più adatti a tramandare la specie nella ostile nicchia ecologica dei cortili torinesi. Si ripresentava a volte dopo cinque o sei giorni, smagrito, con le orecchie frastagliate dai morsi dei rivali, qualche ciocca di pelo in meno, talvolta con ferite da graffio pericolosamente vicine agli occhi. Ma vincitore: in un paio di anni i cortili dei dintorni si popolarono di gatti soriani, tutti robusti, tutti sessuomani.
Fuori battaglia, Puccia era un gatto dolcissimo. Mi si accoccolava in braccio e, facendo le fusa, mi leccava per ore il maglione, lasciandomelo tutto umidiccio e con la lana ben pettinata. Giocava di gusto, sopportava a sua volta i miei giochi con affettuosa pazienza, mi parlava con teneri gorgoglii. Quando andavo a chiamarlo nei cortili, preoccupato per la sua sorte dopo giorni di assenza, mi rispondeva, mi correva vicino, si lasciava accarezzare, ingoiava i bocconcini che gli avevo portato; ma poi, inflessibile, mi sgusciava dalle mani e tornava alle sue battaglie.
Parlo di anni lontani, molti ricordi sono in realtà ricordi di ricordi, è vano cercare di ricostruirli ora che sono cristallizzati. Dirò soltanto che nell’epopea del mio gatto Puccia spiccano alcuni episodi storici. Il primo fu il taglio della lingua. In quel tempo i gatti si nutrivano a coratella, cioè a pezzetti di polmone di vitello, una frattaglia di poco prezzo che con l’avvento del miracolo economico sarebbe scomparsa dalle macellerie. Puccia era sempre famelico, e quando gli si tagliava la coratella con le forbici saltava sul tavolo per ingozzarsi subito i bocconi di quella strana sostanza rosa che, gonfia d’aria, acquisiva una sofficità gommosa. Un pomeriggio c’era da noi un’amica di mia madre, forse una delle “signore Ferraris” (erano due sorelle), e questa signora volle dar da mangiare a Puccia, ma poiché era inesperta della foga di quel felino, che si gettava sulla coratella come un socialista su un appalto, gli prese tra le lame delle forbici la punta della lingua, tagliandogliene un pezzetto. Il povero Puccia si limitò ad un breve lamento, e stoicamente continuò il pasto, ma per il resto della vita ebbe difficoltà a lappare acqua e latte perché non gli riusciva più di fare bene la lingua a cucchiaio: intorno alla sua tazzina c’era sempre un cerchio di schizzetti.
Altro episodio eroico fu quello della prigionia nella cantina della caldaia. Puccia mancava da più di una settimana, incominciavamo a disperare di vederlo tornare e io ero preoccupatissimo per questa assenza. Una mattina, alle otto meno un quarto, mentre andavo alla scuola media Balbo ripassando mentalmente le declinazioni latine o i verbi irregolari francesi, sentii, proveniente da una grata di ferro affiorante sul marciapiede, un miagolio lamentoso. Era la voce di Puccia. La (lo) chiamai a mia volta. Subito rispose con grida ancora più struggenti. Intrattenemmo un dialogo di qualche minuto, che fu di reciproco conforto. Poi con mia zia andammo a cercare la custode di quella casa per individuare la cantina nella quale Puccia era prigioniero. Risultò che era quella della caldaia condominiale (allora gli impianti di riscaldamento andavano a carbone) ma la custode non ne aveva la chiave, che era in possesso del gestore dell’impianto. Ne trovammo poi una copia dall’amministratore, e io mi arrampicai sulla caldaia fino all’infernotto che si affacciava sulla strada. Puccia era lassù, abbarbicata con le zampe alla feritoia. Riuscii a prenderla e a portarla giù. Una zampina davanti era piagata per il lungo sforzo della presa e perdeva una sostanza purulenta. Guarì con una fasciatura alla tintura di iodio e qualche iniezione di antibiotici.
Un’altra volta ero andato a cercarla nella cantina di un vicino condominio (il suo vasto territorio andava dal giardinetto dell’ex Archivio di Stato a tutti gli isolati tra via Quartieri, via San Domenico e via Santa Chiara, confinando a Sud con via Garibaldi e a Nord con via Giulio, dove all’epoca c’era l’”albergo dei due pini”, come veniva chiamato il manicomio femminile). Era talmente presa dalle sue battaglie che mi assalì, spiccando un balzo e avvinghiandosi furiosamente al mio braccio. A stento riuscii a liberarmene dandole una forte botta sulle orecchie. L’avambraccio, pur protetto da camicia, giacca e cappotto, portava le tracce sanguinanti dei suoi potenti canini.
Ma Puccia era capace anche di straordinarie gentilezze: mio padre allora era archivista alla “Gazzetta del Popolo” e usciva dal lavoro alle tre di notte dal portone carraio di via Quartieri: bene, spesso trovava, ad aspettarlo, il mio gatto Puccia, che poi lo accompagnava fino a casa, decidendo lì per lì se salire con lui o riprendere i vagabondaggi notturni. In questo Puccia era un po’ come un cane. A Meana una domenica mi seguì per due chilometri fino alla chiesa parrocchiale nella parte alta del paese, prese messa e tornò con me, trotterellandomi davanti fino a casa. Non meno mitica della sua religiosità rimane però la sua feroce tendenza all’aggressione del nemico felino. Nel cortile di via dei Quartieri detestava soprattutto un altro maschio, chiamato Pirilli, che forse gli risultava particolarmente antipatico perché a pelo lungo, tipo Angora. Lo massacrava di graffi e morsi, inseguendolo fin nella sua tana. Una volta la sua padrona, la signora Bergui, telefonò a mia madre. “Sa chi c’è nel mio letto?” domandò. “Non saprei…” rispose mia madre imbarazzata: la signora Bergui era vedova da parecchi anni. “C’è il suo gatto Puccia, e ha cacciato di casa il mio Pirilli! Non solo: mi ha aggredita, mi ha strappato le calze e azzannato una gamba!”. Finì per avvocati e si giunse a un compromesso. Mia madre pagò un risarcimento.
Con Puccia non ci fu un addìo. Un Primo Maggio all’inizio degli Anni Sessanta uscì di casa come per andare alla manifestazione, e non fece più ritorno. Aveva dieci anni. Inutilmente andai a chiamarlo in tutti i cortili appartenenti alla sua giurisdizione. Niente, silenzio, gli altri gatti mi scivolavano attorno indifferenti. Passarono giorni, settimane, mesi, e ogni tanto andavo ancora a ispezionare i suoi cortili. Ancora adesso spero di ritrovarlo, il mio gatto Puccia, un giorno o l’altro. In fondo, non ci sono prove che sia morto. E’ soltanto scomparso, desaparecido, missing. Potrebbe ripresentarsi in qualsiasi momento, un gatto così.
Non facciamola lunga. Il mio secondo gatto si chiamava Jolly. Un soriano, anche lui. Raccolto appena svezzato nel cortile di via Quartieri. Poteva essere un figlio o un nipote di Puccia. La vita dura lo aveva reso precocemente acido: mordeva e graffiava, nel suo piccolo, come il probabile antenato. Divenne anche lui un gattone, ma forse perché mia madre, per rendere possibile la convivenza, lo rese mezzo gatto. La cosa non mi piacque, anche se ora la comprendo. Ci rimise doppiamente il povero Jolly, che mi diventò piuttosto antipatico. Lui, a sua volta, sentendosi poco amato, si comportava con me in modo scorbutico. Poi venne il tempo in cui da casa me ne andai io, che a mia volta somigliavo a Puccia, e Jolly rimase con i miei. Si spense di vecchiaia a Montoso, dove avevamo una casetta, che ora, guarda il destino, è di Beppi e Carlotta Zancan. Ho un rimorso. Quando mia madre mi telefonò la notizia del trapasso, da infame le dissi: “E che me ne importa?”, e mia madre scoppiò a piangere. Farei qualunque cosa per cambiare la storia, per rispetto a Jolly e più ancora per rispetto a mia madre. Ma non si può più. Nessun vero errore è riparabile. Tutto il male rimane per sempre, altrimenti non sarebbe vero male. Jolly è sepolto a Montoso, nel giardino della casetta dove molti anni dopo sarebbe andato a scorazzare anche Miomao, il protagonista del romanzo che state per leggere.
Divenuti marito e moglie il 24 gennaio 1972, Elena ed io andammo ad abitare in via Boucheron. Qui ci raggiunse, pochi giorni dopo, Ratin. Questa volta era una gatta, non c’erano dubbi, ma sempre soriana. Tutto era stato preordinato. Ratin era nata da una micia appartenente a Claudio Vicentini e Anna Gambarotta, due amici del tempo del Liceo D’Azeglio. La frequentavamo già da fidanzati e fin da allora si era deciso che sarebbe diventata la nostra gatta, anche se Elena era un po’ diffidente perché non aveva mai avuto animali. Ratin mi guarda ancora oggi ogni volta che arrivo a casa da una fotografia che le scattai sul balcone di via Boucheron: sta in mezzo a un mucchio di bottiglie vuote come in un quadro di Morandi, e una di queste è una bottiglia di Champagne che servì per festeggiare le nozze. Mi guarda con occhi severi, perché Ratin fu una gatta assorta, pensosa, responsabile, di ferme convinzioni. Ci voleva bene e le volevamo bene, ma senza reciproche smancerie. Come per un pudore dei sentimenti, che non riguardava soltanto i rapporti tra felini e umani. L’unica volta che Ratin fu avvicinata da un gatto, lo cacciò come se avesse preso i voti, e con noi analogamente evitava gli eccessi affettivi. E’ sintomatico che mai Ratin sia salita sul letto mentre noi eravamo svegli. Aspettava che dormissimo (o almeno così credeva) e poi con un salto lieve, come in assenza di gravità, si accoccolava in fondo, vicino ai nostri piedi, silenziosa, e ben attenta ad andarsene prima dell’alba.
Dotata di grande autonomia spirituale, Ratin ci seguiva malvolentieri nei viaggi tra Torino e Montoso, anche se poi, una volta arrivata lassù, si divertiva molto ad esplorare alberi e prati. A Torino reagiva alla vista delle valigie in modo drastico, irrorando il letto, operazione che, almeno di qualche ora, riusciva a procrastinare la partenza. A Montoso, per evitare il viaggio di ritorno in città, andava a rifugiarsi in una piccola baita diroccata dietro la casa. Per il resto, anche Ratin fu creatura dolcissima. Così affezionata da depositarci sulla soglia della casa di montagna ogni sorta di cacciagione. Morì a poco meno di 14 anni per una malattia renale, infermità che affligge spesso i gatti. L’ultima sera, tornato dal lavoro, la trovai nel mio studio, sotto la scrivania, con la bocca socchiusa, la lingua fuori e il fiato corto. Le diedi una tazzina di acqua, che lappò guardandomi con riconoscenza. Arrivò poi anche Elena e insieme decidemmo di telefonare al dottor Achille Leso, il veterinario. Se la portò via in un sacchetto.
Fu poi la volta di Bibì. Anche in questo caso tutto incomincia con un equivoco sessuale. Pensavo fosse femmina, anche perché come tale me l’aveva consegnata un amico tipografo della “Stampa” che, forse non a caso, di cognome faceva Gay (e fa tuttora, ma adesso è in pensione). Bibì aveva un musetto delizioso, con una macchia nera sul naso come la gatta che Gino Paoli cantava all’inizio degli Anni Sessanta. Il pelo, piuttosto lungo e lanoso, quanto a colori era vagamente quello del siamese, ma con i colori invertiti. Bianca e soffice era la pelliccia della pancia. Grande il muso, grandi e bellissimi e buoni e ineffabilmente infantili gli occhi azzurri. La sua eleganza era così speciale che non era possibile ritrarlo in fotografia: fissarne l’immagine lo rendeva goffo perché proprio nel movimento stava la sua armonia, e Bibì era, se riesco a farmi capire, in movimento anche quando dormiva, benché – chiaramente – stesse fermo; quindi neppure nel sonno si poteva fotografarlo: la pellicola avrebbe paralizzato quel movimento impercettibile che è la grazia.
Tant’è vero che – avendo chiesto a Beppi Zancan che me ne facesse un ritratto (la pittura, al contrario della fotografia, può rendere il movimento) – non è stato possibile proprio perché non si potè scattare a Bibì una buona foto che servisse da punto di partenza. Succede anche con le donne: le più belle non sono tali in fotografia, così come le più belle in fotografia non lo sono più quando, semplicemente, vivono. Ma non posso parlare di Bìbì, che ora è santo nel paradiso dei gatti, prontamente canonizzato, avendo compiuto due miracoli di cui tra poco dirò. Non posso parlarne, almeno, sotto l’aspetto affettivo. E’ passato troppo poco tempo dal distacco, avvenuto l’ultimo venerdì del settembre 2002. Posso solo richiamare brevemente due episodi, ma da cronista, non da familiare e quasi consanguineo di questa straordinaria creatura.
Il primo episodio è legato a un altro rimorso. Bibì, che così avevo battezzato pensando a Brigitte Bardot, mito femminile della mia adolescenza, ben presto si rivelò maschio. Per la verità la veterinaria che mi informò della cosa lo giudicò, da questo punto di vista, “poco dotato”, ma anche tale valutazione pochi mesi dopo si dimostrò errata. Con Gay l’accordo era che avrei preso soltanto una femmina, per evitare i noti guai dongiovanneschi vissuti con Puccia. Sicché, avuta la rivelazione, in ottemperanza ai patti, riportai Bibì nella sua natale casa di campagna, un cascina del Canavese, dove tra l’altro rimanevano vari suoi fratelli e sorelle, nonché la madre, che con mia sorpresa mi si manifestò per soriana, pur avendo la suddetta veterinaria riconosciuto in Bibì alcuni tratti del gatto Birmano. Lì per lì non pensavo di far male, di commettere una azione cattiva e vile. In fondo Bibì era tornato a casa sua, con i suoi più stretti parenti. Ma dopo qualche giorno incominciò il rimorso. Dal terrazzo di via Carena guardavo le montagne del Canavese e pensavo a Bibì. Gay mi diceva che era scomparso, che probabilmente non si sarebbe più adattato al rientro in famiglia e si era dato alla macchia in montagna. La prima domenica andai a cercarlo. Invano. Tornai la domenica dopo, e con Elena lo chiamammo su e giù per i pendii dietro la cascina. A un certo punto sentimmo la sua voce, inconfondibile. Ci aveva riconosciuti e ci veniva incontro, magrissimo. Divorò due ettogrammi di carne cruda tritata che gli avevamo portato e tornò a Torino con noi. Nella sua bontà, non solo non conservava alcun rancore per l’abbandono, ma il ricongiungimento avvenuto in circostanze così fortunose gli aveva instillato nei nostri confronti una commovente riconoscenza e una quasi sconfinata ammirazione per la nostra onnipotenza.
Capii allora che un gatto – ma anche ogni altra creatura animale – vive in un meraviglioso e terribile stato di essenzialità. Noi umani siamo in buona parte nelle cose che possediamo: se ci tolgono la casa, il conto in banca, l’armadio pieno di vestiti, gli elettrodomestici, non siamo più noi. Un gatto ha un unico capitale: la pelliccia che deve riparararlo per tutta la vita, le unghie e i denti che sono lo strumento per sfamarsi e, se è un gatto fortunato, i suoi affetti. Beppi Zancan esprime perfettamente la francescana essenzialità del gatto, che è insieme la sua forza e la sua fragilità, nelle prime righe del tredicesimo capitolo: “Non vi era nulla di accessorio nella sua esistenza oltre all’affetto per noi, Carlotta e me, e alla voglia di vivere con noi. (…) Miomao non aveva titoli o professione (…) Non era geometra o commercialista, non era professoressa o artista. Non aveva hobby, né ideologie, anche se indubbiamente possedeva delle inclinazioni, un carattere e delle radicate convinzioni sul mondo esterno, sui luoghi del mondo e sugli esseri viventi che lo abitano.”.
Il secondo episodio che evocherò della vita di Bibì è legato alla sua sorprendente abilità di cacciatore. Dominatore dei terrazzi dell’attico di via Carena, dove ci eravamo trasferiti già con Ratin dopo poco più di un anno trascorso in via Boucheron, Bibì era in grado di catturare un colombo e lasciarne soltanto il becco e qualcuna delle penne più lunghe e indigeste, le remiganti. Dopo pasti siffatti, indulgeva ad altri piaceri, abitando nell’attico accanto una micia compiacente, che veniva a trovarlo con regolarità ad ogni fine settimana, quando i suoi padroni se ne andavano a loro volta in gita. Ma una volta un colombo gli fu fatale. Probabilmente lo inseguì mentre spiccava il volo, senonché in aria i colombi hanno la meglio, e Bibì precipitò dal quinto piano, probabilmente – almeno nei primi metri – avvinghiato alla preda.
Era tale l’autonomia di Bibì, che lì per lì non notai la sua assenza: Elena era fuori Torino per lavoro, io uscivo la mattina per andare in redazione alla “Stampa” e tornavo tardi. Ma, passato un giorno, avendolo chiamato a lungo, incominciai a preoccuparmi. Il secondo giorno tornò Elena e, pur senza convinzione, facemmo l’ipotesi che fosse caduto dal terrazzo. Scendemmo quindi a cercarlo e a raccogliere testimonianze, senza trovarne di attendibili. Finché il terzo o il quarto giorno un giovanotto che lavorava in una bottega di gasista di fronte al nostro portone ci disse che qualche tempo prima aveva visto un gatto ferito ripararsi sotto un’automobile, e allora aveva telefonato alla Protezione degli Animali. Era quindi giunta un’auto del Canile municipale di via Germagnano, e gli addetti avevano raccolto questo povero micio.
Era l’anno dei Mondiali di Calcio in Italia: regalammo un biglietto per una partita al giovanotto e corremmo al Canile. Ci introdussero in uno stanzone brulicante di gatti più o meno malconci. Perlustrammo lo stanzone, chiamammo appassionatamente Bibì, ne descrivemmo l’aspetto al custode: niente. Uscendo dallo stanzone pieni di tristezza, incrociammo una ragazza, volontaria della Protezione Animali, che ci domandò perché fossimo così abbattuti. Raccontammo la storia: via Carena, gatto ferito, chiamata al Canile… “Ma l’ho soccorso io! – disse la ragazza – Se non è morto per le ferite dev’essere qui.” Ci riaccompagnò nello stanzone. Non avevamo guardato soltanto dietro un armadio, in un angolo. Per scrupolo, lo spostammo: Bibì era lì, con il muso ancora sanguinante e un canino che gli penzolava fuori della bocca, appeso per un pezzo di gengiva. Lo portammo subito in una specie di ospedale per animali, dove gli fecero una radiografia “total body” che conserviamo ancora: il suo ritratto osso per osso, coda esclusa. Non aveva fratture, se non quella del palato, che gli impediva di mangiare ma non di miagolare per raccontarci le disavventure che aveva passato. “Se non si infetta – ci dissero – può cavarsela.” Per una settimana lo nutrimmo con una siringa. Poi, una mattina, provò a prendere un bocconcino dal piatto e riuscì a trangugiarlo: si voltò verso di noi con un miagolìo di soddisfazione, era il ritorno alla vita.
Questo fu il primo miracolo di Bibì. Il secondo lo fece aiutando la guarigione di un piede di Elena, del quale seguì con amorosa partecipazione innumerevoli medicazioni. Per la beatificazione si richiedono due miracoli, e qui ci saremmo, ma è controverso se sia valido il primo, perché lo fece a proprio beneficio, scampando alla caduta dal quinto piano e facendosi ritrovare quando ormai avevamo perso ogni speranza. Un tale miracolo potrebbe configurare un conflitto di interessi. Ma io sono convinto che sia valido, sia perché ben altri conflitti di interessi oggi trovano tolleranza, sia perché comunque il miracolo andò anche a beneficio di noi umani, che riavemmo il nostro carissimo micio. Il quale in tutta la vicenda ci rimise soltanto alcuni denti incisivi e il canino superiore sinistro. A riprova che la vita imita l’arte, il Burchiello, soprannome di Domenico di Giovanni, nato a Firenze nel 1404 e morto a Roma nel 1449, barbiere di professione, anarchico antimediceo e poeta dilettante di ispirazione burlesca, anticipò di alcuni secoli la vicenda di Bibì, sia pur invertendo i ruoli del cacciatore e del cacciato:
Un gatto si dormiva in su ‘n un tetto,
e un Nibbio, a cui parve fusse morto,
gli diè di piglio; e ‘l gatto, come accorto
tel prese colle zampe pel ciuffetto.
Ognuno teneva il suo nemico stretto,
non facendo ancor l’uno all’altro torto:
poi saltellando caddero in un orto;
non ti vo’ dir s’io n’ebbi gran diletto.
Il Nibbio lo voleva pur lasciare,
e stringeva, tirando a sé gli ugnoni,
credendo che così s’avesse a fare.
Allotta ben sentì io miagolare,
e ‘l gatto se gli fè sopra bocconi,
dicendo: or vola, se tu sai volare.
Io glie ‘l vidi sbranare,
come dicessi, vè che mi lasciasti,
perché m’avessi preso pe’ catasti.
(…)
Ora sulla mia scrivania c’è un altro micio, ed è di nuovo un soriano. Sapete già che il suo nome è La Vie. Bibì se n’era andato da un mese, anche lui per una malattia dei reni, all’età di quindici anni, quando siamo venuti a sapere da una veterinaria che questo micetto, raccolto in un cortile di Nichelino da una signora gentile di nome Seralutzu, era in attesa di sistemazione. Appena lo vidi pensai a Puccia: sono quasi sicuro che sia un suo discendente. E’ un ragazzo un po’ scapestrato, ma quando vuole è anche tanto affettuoso, e sa guardarti con sguardo adorante. Comunque, è il mio quinto gatto, e quando lo accarezzo penso: chissà se arriverò al settimo. L’ultimo. Come in ogni vita c’è l’ultimo amore, l’ultima passeggiata, l’ultimo pasto.
Si capirà, adesso, perché ho riconosciuto qualcosa di me nel racconto di Beppi Zancan, in questo romanzo che parla di Miomao ma parla anche di tutti i gatti e di tutti gli uomini che abbiano un po’ di anima. Sulla perdita di un gatto hanno scritto in tanti: mi vengono in mente Italo Svevo, Carlo Cassola, Ennio Flaiano, Giorgio Celli. Ma qui c’è un messaggio che va al di là e che ci riguarda tutti. Leggete e capirete. Posso soltanto fornire un indizio: il tema più nascosto e profondo di queste pagine è la caducità. Fu Charles Baudelaire a far notare che i cinesi leggono l’ora nell’occhio dei gatti.
Torino, 11 maggio 2003
Post Scriptum.
Sono passati quasi dieci anni da quando ho scritto questa Presentazione al libro di Beppi Zancan. Purtroppo il micetto La Vie, smentendo il suo nome, è vissuto poco. Un virus lo ha paralizzato quando aveva appena tre anni. Terribile. Sulla scrivania da parecchio tempo ha preso il suo posto Gatto Pulce, detto così perché quando è arrivato qui era pieno di questi piccoli parassiti, e anche adesso, a dire la verità… Ma la cosa che volevo dire è un’altra. Gatto Pulce è il mio sesto gatto. Nel 2003 accreditavo la tradizione secondo cui i gatti hanno sette vite, che insieme eguagliano la vita di un uomo. Ma poi ne ho trovato un’altra che parla di nove vite. Bene, egoisticamente preferisco questa variante. (Torino, 25 settembre 2012)