Il caso mi ha fatto incontrare Piero Femore senza perdere tempo. Nel luglio del 1963 avevo rubato la mia “maturità” al liceo d’Azeglio (il verbo è giusto: andai all’esame con due insufficienze e in quelle materie uscii con due 10). A ottobre, prima ancora di incominciare a frequentare da matricola la facoltà di Lettere, entravo come insegnante di italiano, storia e educazione civica alla Casa di Carità Arti e Mestieri. Precocità all’epoca resa possibile dalla scarsità di docenti nell’Italia del miracolo economico che aveva visto esplodere l’istruzione obbligatoria. E poi la Casa di Carità Arti e Mestieri, come si intuisce, era una scuola anomala: fondata e governata dai seguaci di Fratel Teodoreto, non esigeva concorsi e titoli di studio universitari perché dipendeva non dal ministero della Pubblica Istruzione ma da quello del Lavoro. Infatti formava operai specializzati: tornitori, fresatori, aggiustatori, elettricisti, tecnici disegnatori.
Lì, all’incrocio tra via Benedetto Brin e via Livorno, in una periferia industriale oggi resa irriconoscibile da una brutta architettura postmoderna subentrata al grigiore delle Ferriere e di tante altre fabbriche metalmeccaniche mestamente liquidate, incontrai Piero Femore, anche lui docente di italiano, con in più, se ricordo bene, il ruolo di bibliotecario. Io avevo 19 anni, lui 28. Ci si incrociava nei corridoi, ci si vedeva come pesci in un acquario quando facevamo lezione perché le aule avevano pareti di vetro dall’altezza di un metro e mezzo in sù, si chiacchierava in “sala professori” durante gli intervalli. Presto i nostri gusti letterari si rivelarono piuttosto simili, e questo aiutò l’amicizia. Ma sarebbe bastato il suo sorriso largo e franco (rimasto intatto fino alla fine).
Durò poco, perché proprio in quel giro di mesi Femore aveva fondato in una autorimessa di via Cappelli la sua casa editrice, attività che presto lo assorbì completamente, oltre a essere per certi versi poco compatibile con la Casa di Carità, dove ogni giornata iniziava con la Santa messa: l’Editrice dell’Albero non faceva solo scelte molto laiche, faceva spesso scelte politicamente scomode e aveva una speciale attenzione per la letteratura erotica. Tra i suoi autori ci sarà poi anche un mio futuro amico carissimo, il francesista Luigi Bàccolo con il suo romanzo “Vivere come sopra una montagna” (1965), storia d’amore ambientata in un albergo della valle Vermenagna. Dopo il breve incontro alla Casa di Carità ci si perse di vista. Furono di nuovo i libri a farci incontrare. Nel luglio 1967 mi ero laureato e a novembre entrai come praticante giornalista alla “Gazzetta del Popolo”. Iniziai nel settore politico, passai brevemente al settore esteri e poi, complice il fatto che Lorenzo Mondo e Guido Boursier erano emigrati rispettivamente a “La Stampa” e alla Rai, ebbi la fortuna di ereditare la Terza Pagina e il Diorama Letterario. Nel 1974 usciva il mio primo libro, un saggio sullo scrittore di mare Raffaello Brignetti pubblicato da Mursia, seguito da “La verità confezionata”, una guida alla decodifica dei giornali rivolta alle scuole (Paravia) e, nel 1975, da “Universo senza confini” (SugarCo), il mio primo libro di divulgazione scientifica. Vennero poi altri libri divulgativi, e iniziò la peregrinazione per presentarli. Così ritrovai Piero, gentilissimo ospite nelle sue librerie, inizialmente in via Gobetti e poi in piazza Carlo Felice, chiaramente in opposizione, non solo geometrica, alla storica libreria Fògola.
Terza tappa fu la “Campus” di via Rattazzi. Grazie a Piero Femore, questa fu per me e tanti altri molto più di una libreria. Fu un crocevia di persone intelligenti e curiose. Non un salotto, che sarebbe parola offensiva. Con una superficie su tre piani che ne faceva la libreria più grande d’Italia, per vari anni con un ampio reparto di dischi ad anticipare il concetto di multimedialità oggi così comune, la libreria di via Rattazzi era un posto per dibattere idee nuove, discutere libri, ospitare concerti jazz e piccole mostre fotografiche, organizzare seminari, incontrare editori, autori, giornalisti. E’ superfluo dire che ci sono passati tutti quelli che contavano (e contano), da Umberto Eco ad Antonio Tabucchi, da Giovanni Arpino a Franco Lucentini e Carlo Fruttero, da Piero Chiara a Claudio Magris, fino a Renzo Arbore e Forattini, per citare con la casualità erratica della memoria.
Con ragione Piero aveva chiamato “Campus” la sua libreria. Era davvero una sorta di campus universitario che aveva attratto nell’orbita della sua clientela quasi tutti i docenti del nostro ateneo e un grande numero di studenti. Alla Campus potevi sfogliare i libri a lungo, quasi leggerli integralmente se volevi. Potevi incontrare amici intellettuali e non. Ma soprattutto avevi l’opportunità di stare in compagnia di un vero grande libraio. Femore leggeva tutto, non avrebbe mai tenuto nei suoi scaffali un titolo senza sapere qualcosa del suo autore e del suo contenuto. Divorava narrativa e saggistica. Sapeva darti un giudizio sicuro su qualsiasi testo, anche se era ancora umido di inchiostro, se era arrivato in libreria appena da mezza giornata. I suoi giudizi erano sempre sicuri, ben motivati, sorretti dall’intelligenza ben informata del bravo critico militante: lo si è visto poi nelle nitide recensioni e cronache letterarie che scriveva per “La Repubblica”.
Quando nel 2001 Piero Femore ha lasciato il lavoro che per 35 anni aveva svolto con tanta passione, la Campus non è più stata la stessa, Bruno Gambarotta, regista, scrittore e umorista, anche lui astigiano come Piero, non ha più parcheggiato la sua bicicletta al palo del divieto di sosta e tutti ci siamo sentiti orfani.
Dove vai, adesso, a discutere e confrontare le tue impressioni di lettore? Dove vai a raccogliere le ultime voci (ben fondate) sul dietro le quinte dell’editoria e del giornalismo? Chi ti offre, quando cala il buio, un bicchiere di buon Arneis con un salatino? Era nato ad Asti. Se n’è andato a 71 anni nell’estate 2007.