A Formia eravamo andati per perdere – sì, perdere – un premio balnear-letterario. Lui, Luigi Bàccolo, il mio compagno di viaggio, lo perse con una bella biografia di Casanova ora ripubblicata da Rusconi, io con il libretto divulgativo «Il pianeta azzurro» (titolo che poi Luigi Malerba applicherà senza il minimo imbarazzo a un suo romanzo; se n’è andato nel 2008, pace all’anima sua). Il premio lo vinse invece qualcuno che poi risultò negli affollati elenchi della P2, in compagnia di alcuni membri della commissione giudicante. Altra storia. Torniamo alla nostra, che vorrei raccontare in memoria di uno degli amici più cari.
L’Alfasud rossa correva dalle due del pomeriggio sotto un sole sahariano. Ottocento chilometri, e volevamo arrivare in serata. Strana coppia. Il vecchio e il giovane. Il saggio e lo scapestrato. Lo scrittore e il giornalista. L’allievo della Normale di Pisa e il dilettante di astronomia (una sorta di voyeur del cosmo). Sondai cautamente. «Tu che hai studiato a fondo i grandi libertini del Settecento, il Marchese de Sade, Restif de la Bretonne, Casanova: qual è il segreto del loro successo con le donne?».
«Le regole sono tre – disse il Saggio mentre iniziavo un sorpasso arrischiato – e le prime due sono banali: essere di bocca buona e provarci con tutte. Accontentarsi di quel che capita a tiro è essenziale per non precipitare nella frustrazione e nella delusione. Quanto a provarci con tutte è ovviamente una faccenda di statistica: è come giocare più schedine, aumentano le probabilità di fare 13.»
«E la terza regola?»
«Questa è più difficile, perché non si concilia con le prime due. La prescelta deve sentire di essere per te l’unica donna del mondo. Non si può simulare. Per bravo che tu sia, lei se ne accorge. Seduce solo chi è sedotto. La forza di Casanova stava nel fatto che ogni volta lui si innamorava sul serio, e quindi la sua compagna si sentiva davvero l’unica donna del mondo. Magari per una settimana, una notte, o un’ora. Se poi finiva lì, pazienza: almeno lei sapeva che Giacomo non l’aveva presa in giro. Il cuore femminile può sopportare il destino avverso, l’abbandono, persino il tradimento, ma non l’inganno premeditato.»
«Quante donne ebbe Casanova?»
«Non le ho mai contate. Tra importanti e occasionali, circa duecento. Di qui possiamo dedurre il suo rispetto per le prime due regole: senza dubbio era di bocca buona e provava con tutte. Riguardo alla terza regola, che ciascuna di quelle duecento donne si sia sentita l’unica al mondo possiamo ricavarlo dalle lettere di Giacomo e da varie testimonianze. Un’altra prova, indiretta, è questa: le sue relazioni finivano sempre senza rancori. Anzi, tra i due rimaneva un’amicizia sincera e piena di complicità. Prima di abbandonarle, spesso Casanova si preoccupava di offrire alle sue donne una sistemazione: un marito, una rendita, o almeno un altro fidanzato. E a volte le sue compagne, separandosi da lui, gli trovavano una nuova amante.» Scorrevano caselli autostradali e motel. Sapevamo che intanto, nei dintorni, milioni di corpi seminudi si agitavano sulle spiagge. Gente che mostra, gente che guarda. Sublime simmetria. Chissà che impressione ne avrebbe riportato il grande amatore veneziano. Sorpresa? Vertigine dei sensi? Eccitata allegria?
«Eppure – rilevò lo studioso dei libertini – per me quella delle spiagge è la situazione meno erotica che si possa immaginare.»
Allora gli raccontai della mia intervista con una spogliarellista. In arte, Malibù. Era giamaicana (forse) e mi aveva insegnato un sacco di cose. Provai a descrivergliela. Entrava in scena indossando tre indumenti. Dall’alto in basso: un bustino in pelle nera stretto sulla schiena da una ragnatela di lacciuoli intrecciati; calze nere con giarrettiera; un paio di scarpe in vernice rossa con tacco a spillo e il cinghietto serrato sopra la caviglia. Era alta ma non troppo. Un caschetto di capelli bruni le copriva la fronte. Sui grandi occhi dall’iride grigio-azzurra ciglia ombrose calavano come un sipario dell’anima. Gli zigomi erano graziosamente sporgenti, schiariti da un tocco di cipria pallida. Il rossetto, tendente al viola, disegnava labbra socchiuse e appena imbronciate. Il seno, solo in parte imprigionato nel bustino, dunque compresso e insieme tracimante, inviava un messaggio ambivalente, di vigore e fragilità. I tacchi, altissimi, conferivano a tutto il suo corpo una tensione che evocava l’immagine di una molla pronta a scattare. Faccio per dire, ma poteva essersi diplomata in Erotismo all’Università di Berkeley, aver preso un master in Seduzione ad Harvard e aver fatto pratica al Crazy Horse.
«Fu lei a rivelarmi la grande contraddizione: l’erotismo è l’arte di proibire, il sesso l’arte di concedere.»
Lo studioso di Casanova manifestò un certo interesse. «Sono comportamenti inconciliabili.», fu la sua osservazione.
«Allo stato puro sì. Ma nella pratica diventano possibili vari compromessi. Per esempio si può proibire molto e concedere qualcosa. O viceversa. Così almeno sosteneva Malibù. Le domandai poi che cosa intendesse per erotismo. Il sesso indirizzato dalla ragione, fu la risposta, l’istinto dell’animale potenziato dall’intelligenza dell’uomo. E’ necessaria, sosteneva Malibù, una intelligenza superiore per capire la forza scatenante della proibizione, e quindi la vertigine dell’atto trasgressivo. Per questo il sesso in sé non preoccupa il Potere, che anzi lo incoraggia. Per questo la pornografia dilaga, mentre l’erotismo viene censurato. Sosteneva anche, Malibù, una cosa geniale: l’essenza del sexy non è nel corpo di colei che si mostra, per quanto possa essere perfetto, ma nella fantasia di chi lo guarda. Dunque, sfortunato chi non ha fantasia.»
«Ti rivelò qualche segreto del suo lavoro?»
«Più di uno. Sosteneva Malibù che per una spogliarellista la prima cosa da apprendere è la disciplina della fissità. Il movimento non è vietato, ma deve essere soltanto il raccordo armonioso tra due immobilità. Aggiunse che spogliarsi in pubblico per mestiere è cosa che lascia il segno: certo, lo spettatore non può toccarmi, diceva, ma non esiste contatto più intimo e più profanatorio del contatto oculare. Ce lo insegnano psicologi e antropologi. E una spogliarellista deve saper tener fermo lo sguardo negli occhi di chi la scruta. Questo sosteneva Malibù, benché certo non avesse letto Desmond Morris e non sapesse né di antropologia né di prossemica.»
«Ti parlò del rapporto tra nudità ed erotismo?»
«Sosteneva Malibù che la nudità è neutra. Può diventare erotica se è duplicemente intenzionale: in chi mostra e in chi guarda. Non importa quanto si mostra, ma come. Lei, per esempio, non si spogliava mai completamente.»
«Con quale giustificazione?»
«Sosteneva Malibù che l’erotismo è una interpretazione della nudità e che i vestiti sono una interpretazione del nudo…»
«Come Bataille…», annotò lo studioso dei libertini.
«Ricordo che poi mi espose una teoria sull’inarcamento dei fianchi. Dev’essere il più laterale possibile, mi disse. L’ombelico è il baricentro del corpo. La sua proiezione al suolo deve cadere al limite dell’area sottesa dal piede su cui appoggia il peso. L’equilibrio veramente femminile, sosteneva Malibù, è il più precario.»
«Altro?»
«Cose apparentemente marginali. Imparai da lei che lo spessore delle calze da donna si valuta in denari. Il denaro è una unità di misura che corrisponde al peso in grammi di un filo di nylon lungo 9 chilometri. Poiché le calze più trasparenti sono da 10 denari, come minimo ad avvolgere le gambe femminili ci sono 90 chilometri di filato. Meravigliosa leggerezza femminile. Mi fece anche notare la linea delle scarpe a tacco alto: una mirabile architettura parabolica, elegante e funzionale insieme, come l’arcata di un ponte, con in mezzo quel po’ di cuoio sempre nuovo perché non tocca mai terra, mentre il degradante contatto con il suolo è riservato al tacco e alla punta della scarpa. Quando l’intervista finì, vedendola allontanarsi su quell’appoggio incerto, mi parve che volasse dieci centimetri al di sopra del mondo.» Uscimmo sulla Firenze-mare. Sostammo a Viareggio per una breve cena, insalata e fritto di pesce. Ripartimmo nel crepuscolo. Tra le donne sedute al ristorante molte erano belle e poco vestite, ma tutte ci sembrarono volgari. Del resto non le accompagnavano dei Casanova ma dei dongiovanni. Gli altri chilometri passarono discutendo l’abisso che separa la nobiltà del voyeur dalla beceraggine del guardone.
(prima stesura estate 1995)