Prima l’attualità, notizia datata 6 ottobre 2012.
Una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme dispone che l’Università di Torino consegni un cranio che conserva al Museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” al comune di Motta Santa Lucia, 800 abitanti sull’Appennino calabrese, provincia di Catanzaro. Il cranio è quello di Giuseppe Villella, piccolo malfattore del quale non rimarrebbe memoria se il caso non lo avesse fatto entrare nella Storia della scienza.
Capitò che nel 1864 ad eseguire l’autopsia sul cadavere di Villella fu chiamato per l’appunto Lombroso, veronese di famiglia ebraica, torinese per carriera accademica, fondatore in Italia dell’antropologia criminale. Lombroso ravvisò nel cranio del brigante una anomalia che interpretò come un marchio della naturale predisposizione alla criminalità. Di questa anomalia, una fossetta riempita da un lobo del cervelletto, lo psichiatra veronese fece poi il cardine della sua teoria sull’origine “atavica” della delinquenza (non dimentichiamo che pochi anni prima, nel 1856, era stato scoperto l’uomo di Neandertal). Oggi sappiamo che la teoria dell’atavismo è del tutto sbagliata, ma per oltre mezzo secolo ebbe una grande fortuna. Dal punto di vista storico, il cranio di Villella è tuttora la pietra angolare dell’antropologia criminale positivista.
A rivendicare quelle ossa è il Movimento Neoborbonico, che ha tra i suoi leader Domenico Scilipoti, deputato Idv passato a Berlusconi e fondatore del Movimento di responsabilità nazionale. Dopo aver organizzato a Torino alcune manifestazioni di protesta, il Movimento Neoborbonico ha spinto il comune di Motta Santa Lucia a intentare causa al Museo per riavere i teschi di Villella e di altri detenuti collezionati dallo psichiatra veronese ed ereditati dall’Università di Torino insieme con una grande quantità di altri reperti lombrosiani. Gustavo Denise, giudice del Tribunale di Lamezia Terme, ha sentenziato a favore del comune calabrese: il museo dovrebbe restituire i teschi che conserva come documento della “scienza positiva”, e quindi anche del metodo scientifico, che ha talvolta nell’errore un passaggio obbligato verso la conoscenza.
Ma il giudice ha respinto questi argomenti sostenuti dall’Università di Torino. Poiché l’errore scientifico è oggi ben noto (e il Museo ovviamente ne ha fatto uno dei suoi messaggi), non restituire il cranio di Villella sarebbe un po’ come trattenere in carcere un condannato del quale si è provata l’innocenza. In mancanza di eredi in vita, il museo torinese dovrebbe quindi consegnare il cranio al comune di residenza, e qui gli si darebbe sepoltura.
Il dilemma giuridico è interessante. La sentenza, infatti, contrasta con una legge che considera inalienabile il patrimonio dei musei universitari. Insomma, ci sarà lavoro per gli avvocati.
Lombroso eseguì l’autopsia di Giuseppe Villella a Pavia. Dalla documentazione risulta che si trattava di un uomo di 69 anni alto un metro e 70, condannato tre volte per furto, la terza volta a sette anni di reclusione per furto e per aver incendiato un mulino. Al momento dell’autopsia Lombroso non sembrò attribuire importanza alle sue osservazioni, tanto che l’infermiere, Crispino Avetti, conservò solo il cranio e di Villella non furono eseguiti né il ritratto né un calco del volto, come invece avvenne per altri cadaveri studiati da Lombroso in quel periodo.
La “rivelazione” cruciale per la sua teoria del “delinquente nato” Lombroso l’ebbe soltanto sei anni dopo. Fu allora che attrasse la sua attenzione la fossetta occipitale mediana di quel cranio, un poco più grande della norma. Poiché questa caratteristica compare nei lemuri e in altri mammiferi, concluse che in Villella erano riemersi caratteri dell’uomo primitivo, causa prima del suo comportamento criminale. Ma la ricostruzione della scoperta è ancora più tardiva. Risale al 1906, tre anni prima della morte dello scienziato.
“In una grigia e fredda mattina del dicembre 1870 – scrisse allora Lombroso – analizzando il cranio del brigante Villella mi apparve tutto ad un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori”.
Paradossalmente l’attribuzione a una caratteristica scheletrica di un comportamento morale, nel quadro deterministico del positivismo, scagionava il brigante. E mentre un museo universitario è chiamato a restituire un suo reperto storico, a Torino una mostra commerciale espone cadaveri di cinesi trattati in modo iper-realistico. Ma questa è un’altra storia.
(Torino, 6 ottobre 2012)
ERRORI ED ORRORI
L’inventario è inquietante: 684 crani e 27 resti scheletrici umani, 183 cervelli umani, 58 crani e 48 resti scheletrici animali, 502 corpi di reato utilizzati per compiere delitti più o meno cruenti, 42 ferri di contenzione, un centinaio di maschere mortuarie, 175 manufatti e 475 disegni di alienati, migliaia di fotografie di criminali, folli, prostitute e deformità fisiche, folcloristici abiti di briganti, persino tre modelli di piante carnivore.
Il Museo di antropologia criminale di Torino nasce come raccolta di oggetti, reperti anatomici, documenti che Cesare Lombroso (18-1909accumulò senza sosta lungo il corso di tutta la sua vita, custodendoli in un primo tempo nello spazio privato della propria abitazione. Ora questo eterogeneo accumulo, proseguito da Mario Carrara (1866-1937), successore di Lombroso sulla cattedra di antropologia criminale dell’Università di Torino, dal 26 novembre 2009 è diventato un museo aperto al pubblico, a Torino, accanto al Museo di Anatomia e al Museo della Frutta, in corso Massimo d’Azeglio 52. C’è anche, naturalmente, lo scheletro di Lombroso, che egli lasciò alla scienza, così come il suo volto sotto formalina.
Raccolta, non collezione. La scelta della parola è motivata. Collezione rimanda a criteri selettivi espliciti e prestabiliti. Raccolta rende l’idea del mettere insieme preliminare alla collezione. Un intervento sommario su materiali dal denominatore comune mal definito e non facilmente classificabili che precede l’operazione teorica dell’ordinarli e interpretarli. La figlia Gina nella biografia del padre descrive bene questa attitudine: “Il Lombroso era un raccoglitore nato – mentre camminava, mentre parlava, mentre discorreva; in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva, raccogliendo così o comperando un cumulo di curiosità, di cui lì per lì nessuno, e neanche egli stesso, qualche volta avrebbe saputo dire il valore, ma si rannodavano nel suo incosciente a qualche studio passato o presente”.
Potremmo aggiungere che talvolta la raccolta di questi materiali, spesso macabri, passò anche per appropriazioni legalmente condannabili, come confessa lo stesso Lombroso: “Il primo nucleo della collezione fu formato dall’esercito, avendovi vissuto parecchi anni come medico militare, prima del ’59 e poi nel ’66, ebbi campo di misurare craniologicamente migliaia di soldati italiani e raccoglierne molti crani e cervelli. Questa collezione venne mano a mano crescendo, con i modi anche meno legittimi, dallo spolio di vecchi sepolcreti abbandonati: sardi, valtellinesi, lucchesi, fatto da me, dai miei studenti e amici di Torino e di Pavia.
Una volta nelle valli piemontesi compii uno di questi reati scientifici con la complicità niente meno che di un procuratore del re; e fu una vera fortuna se i valligiani presero per un carico di zucchero quei vecchi crani che ci gravavano le spalle dentro sacchi sdruciti”. La raccolta, nata per istinto come accumulo non premeditato, diventa dapprima materiale di studio con il metodo tipico della scienza positiva (misura, statistica delle misure eseguite, classificazione), dà origine a teorie scientifiche e infine, con il passare degli anni, si trasforma in una documentazione che ha soprattutto il compito di dimostrare, confermare e rendere indubitabili le teorie lombrosiane, con un percorso che grossolanamente va dal dato empirico al dogma.
E’ questo l’atteggiamento, persino tenero, che Lombroso, ormai vecchio, manifesta nei confronti dei suoi tristi reperti: “Come il veterano ricorda, accanto al caminetto, il rumor della battaglia, (le grida dei feriti, le convulsioni degli agonizzanti,) così io ora al declinar della vita ripasso qui in rivista con calmo piacere (quelle battaglie non men faticose per la vittoria della mia scuola, e) quei poveri trofei raccolti dal 1859 in poi, pezzo per pezzo, prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino, finalmente nel 1899 nelle ampie sale del Museo psichiatrico criminale, nei nuovi laboratori biologici dell’Università di Torino.”
Si comprende facilmente, dunque, perché il “Museo di antropologia criminale” sia a ragione più comunemente noto come “Museo Lombroso” in quanto così legato alla persona che lo ha messo insieme, al punto che gli apporti venuti ad opera di Mario Carrara dopo la morte di Lombroso, ancorché tardivi, non presentano alcuna frattura rispetto alla parte originale della raccolta. E si comprende anche come, a distanza di oltre un secolo, catalogare l’indistinta galassia di “pezzi” riuniti da Lombroso e dal suo successore per offrirne una lettura ragionata al pubblico abbia posto numerose e delicate questioni.
La prima e più ovvia si riferisce all’immaginario che molti reperti evocano e alle pulsioni che possono essere sollecitate quando si parla di delitti, follia, colpe e pene. Insomma di devianza nelle sue diverse manifestazioni (criminalità, asocialità, malattia mentale, demenza, genialità).
Premesso che è molto difficile definire la devianza (devianza rispetto a quale norma?), è noto che l’interesse popolare per le manifestazioni della devianza corrisponde talvolta a una dialettica attrazione/repulsione che nasce da profondità inconsce e inconfessabili. Non si doveva e non si voleva fare un “museo degli orrori” perché non di questo si tratta e certamente non queste erano le idee ispiratrici di chi ha raccolto il variegato materiale espositivo. Inoltre non si doveva in alcun modo dimenticare che gli oggetti in questione sono resti umani (biologici o esistenziali, la cosa non cambia) e che di conseguenza vanno trattati con il rispetto e la delicatezza alla quale rimanda tale dignità. Di qui la decisione di esporre solo un piccolo campione degli oggetti più significativi o emblematici (per esempio il cranio del brigante Villella), di lavorare soprattutto con riproduzioni e di lasciare tuttavia a disposizione degli studiosi i pezzi originali, opportunamente classificati e ordinati in un deposito non accessibile al pubblico.
Una seconda questione riguardava la tecnica della comunicazione, il linguaggio da adottare. Il Museo Lombroso (continuerei a chiamarlo così) è essenzialmente un museo di conservazione ed esposizione: i suoi oggetti sono i veri protagonisti, e spesso sono dotati di un forte potere suggestivo anche al di là di ogni sospetto di morbosità eventualmente annidata nello sguardo del visitatore. Nonostante ciò, con tutti i rischi che la decisione comporta, si è voluto optare per una blanda interattività e una cauta spettacolarizzazione a fini divulgativi.
La linea comunicativa delle “mani sopra”, del “toccare per capire”, ormai adottata quasi universalmente nei musei scientifici e storici, non era applicabile nel nostro caso. Tuttavia qualche aspetto interattivo si è voluto introdurre almeno invitando il visitatore, in alcune postazioni, a “interrogare” il museo mettendo in azione specifici dispositivi. Tutte le volte in cui è stato opportuno e possibile, si è data la parola al protagonista (Lombroso, ma anche i “devianti” da lui studiati) come primo dato di documentazione. E in un paio di casi si è fatto ricorso a soluzioni teatrali: il museo si apre con un dialogo filmato che introduce nel clima del tardo positivismo e più avanti, ormai verso la fine del percorso, con una operazione forse un po’ troppo ambiziosa e disinvolta, Lombroso in prima persona racconta e giudica se stesso con il senno di poi.
Fin qui però siamo ancora alle prese con questioni rilevanti ma non essenziali. Fondamentale è sembrato invece offrire al visitatore una contestualizzazione storica del museo, dargli nel modo più neutrale possibile elementi di valutazione, mostrare i limiti, le illusioni e gli errori di Lombroso e più in generale della scienza positivista di cui fu illustre esponente, senza però dimenticare che molti problemi e interrogativi affrontati da quei ricercatori (che cos’è un uomo normale, chi è il criminale, chi è il malato di mente, chi è il genio, siamo liberi o condizionati dalla genetica e dall’ambiente e nel condizionamento conta più la prima o il secondo?) rimangono quanto mai attuali: stesse domande con risposte diverse, stesso rischio di errore. In particolare, il parallelismo tra i problemi di un secolo fa e quelli di oggi è messo in evidenza nel corridoio che conclude il percorso del museo, dove il messaggio epistemologico dovrebbe essere che, rispetto al tempo della scienza positivista, oggi si è dissolta la certezza che sia possibile raggiungere per questi e altri problemi una soluzione definitiva.