28 Febbrio 2016

Ora che Umberto Eco è sepolto, tutti hanno parlato e scritto e si attenuano i clangori funerari, voglio ricordare, tra tanti incontri, i due che furono propiziati da anniversari della scomparsa di Luigi Pareyson, il filosofo a cui Eco deve moltissimo, in particolare per la teoria estetica contenuta nel saggio “Teoria della formatività”.

La prima volta, un ammiratore si avvicinò a Eco per chiedergli un autografo su un suo libro. Eco fu brusco: “Siamo qui per onorare un altro maestro”, e si girò dall’altra parte. Lo ammirai. Non era sempre narcisista come sembrava.

Il secondo episodio risale a quando, parecchi anni dopo, a Torino Umberto Eco tornò ancora a ricordare Luigi Pareyson e commentò un passo di poche righe tratto dalla “Teoria della formatività”. Si trattava di un capoverso dedicato alla “zeppa”, cioè a quel riempitivo che ogni tanto un artista si trova costretto a inserire nella propria opera quando scarseggia l’ispirazione. Come sempre Eco fu incredibilmente funambolico. Dimostrò che spesso le zeppe sono la parte migliore e più importante di un’opera d’arte. In un crescendo più che rossiniano, alla fine giunse a sostenere che persino la Divina Commedia altro non è che un grande collage di zeppe.

Al di là della retorica commemorativa, Eco è stato prima di tutto un grande erudito, nel senso buono e meno buono della parola. E poi è stato un opinionista e un giornalista. E poi un grande divulgatore della semiologia. Poco è stato filosofo e meno ancora romanziere se non nel senso parodistico. Un metaromanziere, sorretto dall’erudizione, non dall’ispirazione. Il che non vuole dire che non ci mancherà, e molto.

Per me rimarranno cari soprattutto il primo e il secondo “Diario minimo” e le sue lezioni sui fumetti, che seguii negli Anni 60 a Palazzo Campana quando era libero docente di estetica. Lezioni libere in ogni senso: non davano luogo a esami, lui le faceva per divertirsi e noi le ascoltavamo per lo stesso motivo.

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